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Il Grande Capo: La Diffusione dell’Identità Secondo Von Trier

Il Grande Capo: Lars von Trier si cimenta in un’inaspettata commedia grottesca contro l’alienazione dei rapporti interpersonali nelle multinazionali.

Di Silvia Dioni

Pubblicato il 06 Mag. 2013

 Recensione del Film:

Il Grande Capo

(2006)

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Il Grande Capo - LocandinaIl regista Lars von Trier, messi da parte per un attimo i toni grevi della Trilogia o dei drammoni escatologici, si cimenta con “Il grande capo” in un’inaspettata  commedia grottesca.

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La trama già di per sé trasuda demenzialità: Ravn, proprietario di una ditta di informatica, decide di cederla licenziando tutti i dipendenti, i quali però non conoscono la sua vera identità e lo credono un dipendente come tutti gli altri. Per non catalizzare le maledizioni degli impiegati destinati a perdere il lavoro, egli decide quindi di assumere un attore affinché finga di essere lui il grande capo, e si prenda in toto la colpa della vendita e dei licenziamenti.

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A primo impatto potrebbe sembrare una critica beffarda mossa contro l’alienazione dei rapporti interpersonali all’interno delle multinazionali (com’è possibile lavorare per qualcuno che non si sa nemmeno chi sia?), ma in realtà l’intento del regista non sembra essere quello di proporre l’ennesima riflessione moralista sui rischi della globalizzazione.

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Piuttosto, suggerendo con ironia quanto possa essere versatile e relativo il concetto di identità, Von Trier sembra voler rappresentare un desiderio che nell’immaginario collettivo è, da sempre, potentissimo: sfuggire alla responsabilità delle proprie azioni e del proprio modo di essere, potendo disporre all’occorrenza di  un capro espiatorio e di una maschera ad hoc per ogni situazione.

Quando Ravn ingaggia l’attore per sostituirlo, sappiamo infatti che il suo obiettivo è quello di non rovinare i rapporti coi suoi dipendenti; semplicemente, non vuole che questi se la prendano con lui.

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Ma in realtà, oltre all’idea geniale di appioppare la malefatta specifica a un capo fasullo, Ravn si dimostra in generale un vero e proprio prestigiatore del Sé, abilissimo nel pilotare le relazioni in modo da evitare qualunque conflitto: riesce a mantenere negli anni i suoi collaboratori all’oscuro del suo vero ruolo nell’azienda e ad accattivarsi la loro simpatia, approfittando dell’equivoco a suo vantaggio.

Non solo: quando entra in gioco il finto capo scopriamo, da come i dipendenti si relazionano con l’attore, che con ognuno di loro Ravn aveva assunto un’identità differente, assecondandone le esigenze e coccolando le inclinazioni e i bisogni individuali.

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All’inizio l’attore è un po’ disorientato da questo caleidoscopio di ruoli da interpretare, ma poi anche lui ci prende gusto ad accontentare tutti e intuisce che neutralizzare gli attriti può essere molto vantaggioso (tant’è che rimedia anche un imprevisto, quanto demenziale, rapporto sessuale con una delle dipendenti).

Viene da chiedersi: perché Ravn si comporta così? Perché sceglie di rinunciare alla propria identità pur di scongiurare qualunque possibile tensione? La spiegazione che si dà lo spettatore è ovviamente quella più cinica, ossia che egli approfitti dell’ambiguità per sfruttare il lavoro dei dipendenti, godere dei profitti e del merito e poi sbarazzarsi di loro, possibilmente senza alcuna seccatura.

In realtà, durante un colloquio con la sua ex moglie, il finto presidente dichiara di aver intuito quale sia il reale motore del comportamento di Ravn, quello che noi psicologi definiremmo il suo core belief, peraltro neanche troppo originale: l’idea che se fosse banalmente sé stesso finirebbe per non essere amato.

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Se Ravn non si fa scrupolo di recitare in continuazione è perché questo gli permette di sentirsi sempre apprezzato e benvoluto nonostante i suoi meschini progetti, e quindi il suo tentativo di sfuggire al rischio della non accettazione sembra essere la ragione (o una delle ragioni) di tante macchinazioni.

 La responsabilità di ciò che si fa e di come si è (con tutto il corollario di possibili condanne, critiche e disprezzo che potrebbero derivarne)  come luogo mentale intollerabile, insomma.

Del resto lo stesso Von Trier fa qualcosa di simile al suo protagonista utilizzando l’Automavision, un sistema che delega le modalità di ripresa (scelta delle inquadrature, delle luci e delle messe a fuoco) ad un computer.

Come a dire: se il film non vi è piaciuto non è che io sia un incapace come regista, perciò non mi seccate: prendetevela con la macchina.

 

 

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Silvia Dioni
Silvia Dioni

Psicologa Psicoterapeuta laureata presso l’Università degli Studi di Parma e specializzata in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale all’Istituto “Studi Cognitivi” di Modena.

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