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Storie di Terapie #24 – Salvatore Civis Romanus

Storie di Terapie #24 - da cinque anni con una coetanea era arrivato il momento della scelta: sposarsi trasferendosi o lasciarsi. Entrambe opzioni orribili.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 25 Mar. 2013

 

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso

– LEGGI L’INTRODUZIONE – 

 

Storie di Terapie #24 - Salvatore Civis Romanus. - Immagine: © rangizzz - Fotolia.comStorie di Terapie #24 – da cinque anni con una coetanea era arrivato il momento della scelta: sposarsi trasferendosi o lasciarsi. Entrambe opzioni orribili.

A volte ritornano.

Salvatore non lo vedevo e sentivo ormai da almeno dodici anni ma, quando ho risposto al telefono alle ventuno di una tranquilla domenica sera di gennaio, il suono delle prime sillabe lo hanno materializzato davanti a me, come se ci fossimo salutati tre ore prima al mio studio. Era in preda ad una crisi d’ansia che definirei da temuto spaesamento (categoria diagnostica inesistente), ma che descrive lo stato d’animo del migrante coatto. Poco importa se ci si trovi sulle spiagge della Tunisia in fiamme, con di fronte le onde tumultuose del canale di Sicilia o cent’anni prima sulla banchina del porto di Napoli, con la valigia serrata dallo spago e lo sguardo alla progressista America. Salvatore, poi, non doveva traversare nessun oceano reale, solamente andare a Genova per iniziare la convivenza con la sua donna, ma ciò non era per lui meno spaventoso. Il migrante coatto ha davanti a sé un’idea di futuro migliore, che sia Lampedusa o New York, ma questa meraviglia è tanto desiderata quanto sconosciuta ed estranea. Ciò che resta alle spalle è invece certamente peggiore, ma conosciuto e familiare.

Sulla banchina si lascia, insieme agli affetti, parte della propria identità, come diceva una vecchia canzone “partire è un po’ morire”. Per telefono, quella domenica sera, Salvatore mi esprimeva appunto un’angoscia di dispersione del sé, di morte.

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Perchè un intervento telefonico breve possa essere efficace è un mistero. Il consiglio farmacologico, adattato malamente alle sostanze in possesso in quel momento di Salvatore (la più indicata delle quali era un Jack Daniels doppio malto) avrebbe fatto effetto solo molte ore dopo. Le rassicurazioni tentate del tipo “abbiamo ancora tempo per decidere e troveremo una soluzione soddisfacente” mi sembravano sciocche nel momento stesso in cui le formulavo.

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Invece ebbero effetto e l’ansia, nominata e smascherata come tale, non precipitò nel panico che in passato Salvatore aveva conosciuto. Più avanti ci saremmo interrogati sul motivo dell’efficacia di tale superficiale rassicurazione, che non stava nel contenuto della frase, ma semplicemente nel soggetto. Quel “noi” sottinteso aveva strappato Salvatore alla solitudine del naufrago, non era più solo ed il ritrovarmi immediatamente al volo, dopo tanti anni, aveva compattato la sua identità sfrangiata di migrante coatto. Il sollievo era venuto dal mio fulmineo e inaspettato riconoscimento. Poichè non sempre mi capitano queste cose, soprattutto con l’avanzare dell’età, anche di fronte all’esplicita dichiarazione delle generalità, l’accaduto può catalogarsi come una botta di fortuna che, comunque, ben prometteva circa il successivo intervento.

Il senso dell’immediato ritrovarsi era stato nettamente più forte per telefono che al momento dell’incontro, di persona, al mio studio. Avevo lasciato Salvatore venticinquenne atletico e con i capelli già troppo lunghi per le consuetudini dell’epoca, forse non particolarmente bello per la statura contenuta ed il prevalere delle linee curve su quelle rette ma sprizzante energia, vitalità e una tendenza all’esplorazione curiosa della psiche, che lo faceva piuttosto unico tra i suoi colleghi ragionieri ed economisti. Appassionato di teatro, letteratura e mitologia sarebbe stato un paziente psicoanalitico ideale e, a volte, temevo di tarpargli le ali con le mie speculazioni cognitiviste.

Insomma, allora Salvatore si presentava come uno studente che si gode la vita mentre frequenta l’Università, ora mi trovavo di fronte un signore quarantenne, dirigente di banca, con la calvizie camuffata da destino a scelta, per mezzo di una radicale rasatura a zero. L’altezza appariva ancora più modesta, a motivo di un allargamento di tutti i diametri orizzontali, in particolare la testa sembrava essere diventata enorme. Il colorito rossiccio e l’aspetto sudaticcio da evidente ansia, la rendevano appetitosamente simile alle teste che i porchettari di Ariccia espongono guarnite di un limone tra i denti. Quindici anni non passano invano e, con eleganza, evitammo le frasi fatte tipo “ti trovo bene”, “sei sempre lo stesso”, e altre pietose menzogne simili. Era evidente che eravamo due persone diverse e, se ci fossimo incontrati per strada, non ci saremmo affatto riconosciuti. Ci trovavamo nel mio  studio ed era l’esserci ritrovati lì che garantiva che io fossi Roberto e lui Salvatore.

 Questa constatazione interiore riportava esattamente al centro del problema attuale: il fatto che l’ambiente è un sostegno decisivo per l’identità. Dopo gli scontati ringraziamenti, per averlo salvato da morte certa per angoscia la sera in cui mi aveva telefonato disperato mentre già meditava di uccidersi, ecco i fatti: da cinque anni era fidanzato con una coetanea di Genova ed ormai era arrivato il momento della scelta, o sposarsi trasferendosi a Genova (solo lui poteva ottenere un trasferimento) o lasciarsi.

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Entrambe le opzioni gli apparivano orribili.

Grazie ad una serie di espliciti riferimenti mi ricordai che, anni addietro, avevamo affrontato un tema analogo. Aveva perso quello che, allora, definiva l’amore della sua vita perché non si era sentito di seguirla negli Stati Uniti, dove lei aveva vinto una cattedra universitaria. I problemi di allora riguardavano disturbi sessuali mutevoli, oscillanti tra l’impotenza e l’eiaculazione precoce e paura  di stringere legami in cui avrebbe potuto provare emozioni troppo intense, sia negative che positive, che temeva devastanti.

Aveva inoltre un vago dubbio di omosessualità.  Circa  quest’ultimo tema, solo negli attuali incontri ne ha improvvisamente ritrovato l’origine, con un ricordo emblematico che farebbe la gioia di uno psicoanalista: è un tredicenne bruttino e sfigato che non riesce ad adattarsi nella scuola del paese dove si è trasferito per il lavoro del padre. E’ una assolata domenica pomeriggio di fine maggio, la radio racconta “tutto il calcio minuto per minuto”, è solo e si avvicina alla finestra per guardare fuori. Nel giardino a fianco su una sdraio sta prendendo il sole una quindicenne bionda con un vestito arancione che ha tutt’ora impressa nella mente. E’ una francese che sta lì in vacanza, le sembra un angelo, la cosa più bella che abbia mai vista.

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Il naso appoggiato al vetro lascia un’impronta di grasso e il fiato appanna tutto fino a impedire la vista. Meno male. Meglio così, ha avuto paura. Da una ragazza così sente che potrebbe venirgli un piacere estatico, al solo contemplarla e un dolore infernale all’idea di perderla e lei tra qualche giorno tornerà in Francia. Ha netta la sensazione che non sopravvivrebbe nè a quell’estasi,  nè a quel dolore. Allora immagina di essere omosessuale, si convince di esserlo per evitare guai. Ma non è una scelta possibile.

Tutto ciò che riguarda il mondo delle donne è per lui troppo e può farlo impazzire. Allora, impara a stare sempre sull’orlo del burrone, vicino alle donne ma a distanza di sicurezza. Il potere enorme che la donna ha su Salvatore non è solo quello di concedersi o negarsi ma di definire in questo modo il suo valore: se  viene rifiutato non perde soltanto la possibilità del rapporto, ma se stesso, perché ciò vuol dire che lui non ha alcun valore, l’altro  gli conferisce esistenza o gliela nega. Così ha sempre fatto la madre, supremo giudice del valore del figlio ed unico erogatore di affetto, che andava spartito con un fratello gemello che ha trovato la sua identità nella continua ribellione ai dogmi familiari, mettendo il piacere sempre prima del dovere, al contrario di Salvatore.

Il padre, ufficiale dell’esercito, ha trascinato la famiglia in giro per l’Italia e non è presente nei ricordi infantili, se non come saltuario esecutore materiale delle pene che venivano comminate dal giudice unico materno.

Dobbiamo, tuttavia, occuparci soprattutto del disagio attuale, che ha anche una scadenza temporale nella pazienza di Rita ormai agli sgoccioli e dunque sinteticamente riassumiamo i temi delle puntate precedenti in pochi concetti.

Salvatore ha il terrore che forti emozioni siano intollerabili.

Salvatore pensa di valere poco ed ha continuo bisogno dell’approvazione e dell’accettazione degli altri come prova, seppure non duratura, del suo valore e del diritto ad esistere.

Salvatore si è creato un microcosmo rassicurante dove tutto ciò gli è garantito: il circolo del tennis che frequenta da venti anni e dove tutti sono conoscenti se non proprio amici, il lavoro nella direzione centrale della sua banca dove ormai è considerato un senior, il gruppo teatrale che frequenta da diciotto anni ed è la sua vera famiglia.

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E’ dunque ricchissimo di legami che gli impediscono di sentirsi solo e, contemporaneamente, è assolutamente solo e può ritirarsi nella sua casetta che è rimasta immutata, da quando i genitori gliela misero su, ormai venticinque anni fa, Non ha né cambiato né spostato un mobile, non ha mai rimbiancato le pareti, il tempo sembra essersi fermato.

Salvatore ricorda che la stessa angoscia l’aveva provata anni addietro quando, fidanzato con una ragazza romana, aveva avuto la proposta di andare a convivere in un altro quartiere di Roma, più bello del suo ed in una casa più grande. Afferma che, anche in quell’occasione, almeno consapevolmente, a spaventarlo non fosse tanto il consolidarsi del legame quanto, piuttosto, il perdere la familiarità con luoghi e oggetti entrati, ormai, a far parte della sua identità.

 All’idea di trasferirsi a Genova, città che conosce e apprezza, il vissuto è di esclusione in un doppio senso. Da un lato il fatto di essere a Roma lo fa sentire al centro del mondo. E’ quella che abbiamo chiamato, scherzando,  “la sindrome del civis romanus sum”, consistente nell’accrescere il proprio valore traballante identificandosi con la città eterna; si sente finalmente importante quando i telegiornali parlano di Roma o nei film riconosce squarci della sua città, è lì dove tutto accade, a suo avviso tutti vorrebbero vivere a Roma, vivendo nella capitale dell’impero ci si sente necessariamente un po’ imperatori.

L’altro senso in cui sperimenta l’esclusione è “la sindrome della mancata inaugurazione”: Salvatore è davvero angosciato al pensiero che non assisterà all’ampliamento della stazione Tiburtina e, quando essa soppianterà Termini come prima stazione della capitale, lui non sarà presente e dovrà leggere la notizia sui giornali  di Genova o l’apprenderà dal telegiornale, che inquadrerà una città che va avanti senza di lui.

Pensa con dolore a quando cambieranno i negozi della sua via senza che lui lo sappia, gli amici invecchieranno, cambieranno l’auto, avranno nuovi amori e lui non sarà presente.

Non desidera troppo starci in mezzo, ma vorrebbe rimanere dietro un vetro, come nel ricordo di quella domenica di maggio, a distanza di scurezza, a vedere il loro vivere, a testimoniarlo e certificarlo. La vita è troppo rischiosa e travolgente, il ruolo di testimone oculare gli si adatta meglio.

Nel giro di cinque incontri l’ansia è fortemente diminuita e riesce a vedere tutti i vantaggi del trasferimento a Genova proprio in termini di riduzione della solitudine. Lo aiuta molto pensare che, se avesse una colica renale a Roma dove si sente nel suo ambiente familiare, di fatto non ci sarebbe nessuno a soccorrerlo, mentre a Genova accanto a lui ci sarebbe Rita. Un altro pensiero che in parte lo sgomenta, ma poi lo rassicura in merito al trasferimento, è quantificare quanto tempo al giorno passano i suoi amici, i genitori, suo fratello ed io stesso a pensare a lui. Concordiamo che questo tempo si approssima allo zero e che ognuno pensa soprattutto a ciò che occupa il suo spazio percettivo immediato, mantenendo il ricordo in una labile memoria di lavoro per pochi istanti, per far poi spazio al nuovo. Lo sgomento nasce dall’idea di non essere costantemente rappresentato nella mente di qualcuno; la rassicurazione dall’idea che, pur essendo sempre stato così,  non è mai successo nulla di drammatico e che  l’unica mente che lo pensa in continuazione, ed è più che sufficiente a mantenerlo in vita, è proprio la sua. Essa è, in modo scientificamente non ben chiarito, ma certamente legata al cervello e quest’ultimo saldamente ancorato alla sua testa. Per questo, che sia a Roma o a Genova, quella macchina portatile di circa un chilo e mezzo, creatrice di significati e di scenari ai quali è tanto affezionato, sarà sempre con lui

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La sensazione dell’assoluta irrimediabile solitudine lascia il posto alla piacevole scoperta di bastare a se stesso.

A questo punto del nostro lavoro sollevo il dubbio che parte della resistenza al trasferimento non sia dovuta soltanto a ciò che lascia, ma anche a ciò cui va incontro, vale a dire al rapporto con Rita di cui parla molto poco.

Forse non è solo lasciare la banchina del porto di Napoli a trattenerlo dal salire sul transatlantico, ma anche l’intravedere Staten Island dietro il profilo della Statua della Libertà.

Subito, quasi a fugare ogni dubbio, mi mostra le foto di Rita a riprova della sua bellezza. Dopo poco, però, inizia a dirmi che un piccolo difettuccio effettivamente lo ha: a causa di un padre scapestrato e donnaiolo che ha sempre trascurato la famiglia prima di abbandonarla, è ossessivamente gelosa. Salvatore, per scelta, per carattere e, forse, anche per insicurezza è patologicamente fedele, ma ciò non conta nulla. Tale gelosia è stata già la causa del fallimento del primo matrimonio di Rita durato otto mesi e ha già causato una frattura del loro rapporto, durata un intero anno. E’ molto controllante, non permette che Salvatore abbia rapporti di qualsiasi genere con altre donne, gli impedisce di guardarsi intorno e di avere attività sociali cui partecipino anche donne. Lui, per quieto vivere, non affronta direttamente la questione e si barcamena con piccole bugie che, regolarmente scoperte giustificano un aumento del controllo poliziesco.

Salvatore mi racconta che il suo gemello è esattamente come il padre di Rita, corre appresso a tutte le donne e tradisce sistematicamente la moglie. Anche in questo campo sembra sia siano scelti ruoli opposti per distinguersi l’uno dall’altro: il fratello è un playboy coatto e impenitente, lui è un convinto assertore  della fedeltà, d’esempio per i cattolici più moralisti.

Penso, dentro di me, che mischiando i due se ne farebbe uno buono, ma tengo per me queste riflessioni, temendo di scandalizzarlo. Tuttavia un mio “diavoletto” interiore si scatena, poco convinto delle asserzioni moraliste del mio interlocutore: per  un paio di incontri mi sembra di mettere in scena una vecchia canzone popolare “le tentazioni di Sant’Antonio”, in cui l’asceta  isolato nel deserto resiste ad una serie crescente di tentazioni riguardanti tutti i piaceri dei sensi, proposte dal demone che vuole farlo cadere in peccato.

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La primavera che incalza mi facilita enormemente il compito, considerato che il focus del mio attacco è la bellezza muliebre.

Cerco di dare il meglio di me come tentatore, considerato il duplice fronte: da un lato il timore di Salvatore di essere giudicato male con la temuta conseguenza di essere abbandonato, dall’altro, più grave, di lasciarsi travolgere dalla passione e perdersi, un perdersi mal definito ma assoluto. Le immagini che si alternano nella sua mente sono tre. Lui che si copre di ridicolo, correndo appresso ad ogni donna, fino a che non viene ricoverato nel reparto agitati di un manicomio.

Lui che muore d’infarto nel letto dell’amata, avendo appena accennato la penetrazione (a mio avviso una citazione inconsapevole del “malato di cuore” di Faber).

Infine, il suo corpo ciondolante dal ramo traverso di un grande olivo, nelle campagne dove giocava da piccolo e che sceglierebbe per impiccarsi dopo essere stato abbandonato.

Il lavoro successivo è centrato su una “de-esagerizzazione”, proviamo a considerare gli innumerevoli e più normali esiti di una storia d’amore che non siano la follia, la morte per troppa gioia o per troppo dolore. Mi sembra persino brutto mettergli in discussione questa versione epica, tragica e definitiva dell’esperienza amorosa. Guardandosi intorno si accorge di quanto tutto sia più banale: ci si innamora, si convive, si gioisce, ci si annoia, soprattutto ci si sopporta, si fa qualche viaggio, qualche figlio, qualche casa, ci si tradisce un po’ e ci si pente un po’. Poi il tempo è praticamente finito e ci si accompagna al gran finale. Sipario. Dopo uno dei due continua.

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Mentre stiamo ragionando su queste cose improvvisamente salta una seduta senza avvisare.

Credo di aver forzato troppo la mano, sia con le tentazioni che con la desacralizzazione dell’esperienza amorosa e di essere stato classificato tra gli infrequentabili. Invece non è così.

Il motivo dell’improvvisa assenza è il passaggio del padre all’ultima parte del percorso di cui stavamo ragionando, con l’improvvisa assunzione della qualifica di vedovo. La morte di una madre non è faccenda che possa eludersi in una terapia, soprattutto se avviene durante. Per più di un mese tutte le altre donne si fanno da parte e il palco (queste metafore a sfondo teatrale credo siano indotte dalla passione di Salvatore per quest’arte) è totalmente dedicato ai saluti alla grande madre. Ma non tutto il male vien per nuocere. Infatti la morte dei genitori, in particolare della madre, è vissuto da Salvatore, sin dalla prima terapia, come l’evento impensabile, intollerabile, al quale certamente non sarebbe sopravvissuto. Ecco che invece i giorni passano, lui non muore ed anzi si meraviglia di quanto sappia affrontare con forza e serenità la perdita.

Un altro effetto della morte della madre è l’ulteriore investimento affettivo su Rita, ora finalmente l’unica donna della sua vita. Si decide e chiede il trasferimento per la sede di Genova che gli viene accordato per dopo l’estate.

Raggiunta la decisione e la riduzione dell’ansia la terapia si conclude, anche perché Salvatore è molto impegnato nella sistemazione della nuova casa di Genova e viaggia continuamente, per completare gli aspetti logistici del trasferimento. Inaspettatamente, tre settimane dopo il nostro formale saluto, mi richiama urgentemente e chiede di vedermi appena possibile.

Penso che l’avvicinarsi della scadenza abbia riattivato l’ansia e, già per telefono, gli consiglio di tamponare con il Tavor tre volte al giorno, fino a che il trasferimento non è completato.

Insiste per vedermi comunque. Arriva con dieci minuti di anticipo sull’appuntamento fissato ed ha un’ aria insolita tra l’imbarazzato e il soddisfatto. Inizia chiedendo uno sforzo di memoria per ricordarmi di Silvia. Naturalmente ho il vuoto più assoluto, il che lo meraviglia, perché dice di avermene lungamente parlato già durante la prima terapia. Si tratta della regista del suo gruppo teatrale, sette anni meno di lui, laureata in Lettere, di origini foggiane, alta un metro e settantacinque, occhiali da miope e erre moscia da aristocratica. Silvia sta da sempre nell’empireo dei desideri proibiti, delle intoccabili troppo belle per interessarsi a lui.

Quando ha saputo dell’imminenza della sua partenza per Genova ha insistito per una cena a casa di lei, per fare un consuntivo di tutti gli anni dell’esperienza teatrale. Un testo in prosa da recitare insieme come saluto e regalo a tutti gli altri, un collage di brani delle diverse rappresentazioni messe in scena dalla compagnia. Salvatore dà la responsabilità al vino che ha portato lui, sta di fatto che il testo rimane incompiuto.

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La resistenza di Salvatore ha la meglio finchè parla con sfoggio di cultura e grande capacità introspettiva: per difendersi, in qualche modo, racconta a Silvia della psicoterapia e dei suoi temi irrisolti. Più parla, rivelando le proprie debolezze, più sente da parte di Silvia un’accettazione incondizionata. Questo fiacca grandemente le sue resistenze e lei comprende che deve farlo tacere e smettere di pensare per tornare invece a sentire, come non è più abituato a fare. Cosa fare di meglio per azzittire qualcuno che tappargli la bocca? Silvia gli chiude la bocca con la sua. Salvatore ha, per un attimo, l’immagine di Sant’Antonio nel deserto che si avventa su un piatto di maccheroni fumante e poi più nulla. Non è uomo da mezze misure e, una volta varcato il Rubicone, nulla più lo trattiene. Si abbandona senza resistere all’onda di tsunami passionale che prima temeva lo avrebbe annientato, scoprendo che se non si fa resistenza l’onda ti solleva e galleggi su di essa.

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Nel mio intimo gioisco del racconto di Salvatore ma resto impassibile, chetando le “ola” da stadio che si agitano in me. Gli chiedo però quale sia il motivo della sua richiesta tanto urgente di vedermi e lui mi risponde che è stupito, ed un po’ spaventato, della sua reazione: infatti si sente tranquillo e determinato a trasferirsi a Genova. Gli chiedo di fare delle ipotesi sul perché e ne dà immediatamente due: da un lato ha scoperto che di passione non si muore, dall’altro ha l’impressione di non lasciare del tutto Roma e che, dunque, sarebbe rimasto un po’ civis romanus. Mi confessa, con aria sorniona, di non aver usato alcuna precauzione anticoncezionale e di aver deciso di non dire niente a Rita: è una questione sua anzi, accenna, con un tono tra la promessa e la minaccia, che forse è la prima cosa esclusivamente sua.

Passeggiando tra le chiese di Roma per tornare a casa dallo studio mi chiedo se il padreterno abbia disposto per gli psicoterapeuti un particolare girone infernale,  o se non ci sarà nessun trattamento di favore e staremo insieme agli altri.

Figli di qualsiasi età giungono da noi convinti di aver avuto i migliori genitori del mondo e dopo qualche mese li odiano come causa di tutti i loro mali rileggendo al contrario la loro storia. Lavoratori obbedienti e scrupolosi diventano ribelli e oppositivi ravvisando dovunque un sopruso.

Mogli e mariti, fedeli e timorati di Dio e del giudizio degli altri, si perdono appresso a innamoramenti adolescenziali cercando di negare l’inesorabile trascorrere del tempo, negazione che li rende ridicoli. Equilibri faticosamente raggiunti saltano in poco tempo, le tensioni aumentano e prima o poi qualcuno dice al paziente “a me sembra che da quando vai da quello stai peggio”. E noi, evidentemente posseduti dal demonio, interpretiamo ciò come segno che stiamo facendo un buon lavoro. Inoltre creiamo continuamente altro lavoro per la categoria. E’ infatti probabile che il marito di Silvia, inizialmente felice della gravidanza, dopo il suo soggiorno di lavoro di due mesi in America si porrà qualche problema per la mancata somiglianza di quel ragazzino per cui sgobba dalla mattina alla sera in giro per il mondo.

 

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