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Storie di Terapie #20 – Le diagnosi di Francesca

Storie di Terapie: temeva di avere il seme della follia e osservava i suoi comportamenti preoccupata che ne rappresentassero il germogliare.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 28 Gen. 2013

 

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Storie di Terapie #20 - Le diagnosi di Francesca. - Immagine: © Aarrttuurr - Fotolia.comFobia sociale

Disturbo dipendente di personalità

Lei temeva di avere dentro di sé il seme della follia e osservava tutti i suoi comportamenti preoccupata che ne rappresentassero il germogliare. Forse proprio per questo aveva scelto la Facoltà di Psicologia: voleva sapere cosa fosse normale e cosa no per rimanere dentro i confini.  

Il primo incontro con Francesca è stato preceduto da numerosi appuntamenti presi e poi disdetti che mi avevano convinto di una scarsa motivazione.

Quando me la vidi davanti, la sensazione di fugacità del nostro incontro fu accentuata: mi disse subito, infatti,  che aveva già contattato e visto altri terapeuti e aveva in programma di vederne  altri due nella settimana successiva.

Mi chiese quale fosse il mio orientamento e la mia formazione e soprattutto il mio onorario. Apprese con disappunto che non facevo lo sconto per studenti, praticato da altri colleghi. Dopo il suo dettagliato e competente interrogatorio, che denunciava una preparazione nel campo della psicologia, mi riassunse brevemente i motivi del suo disagio.

Temeva di essere una “dipendente”  perché soffriva molto per il rifiuto di un uomo di cui era innamorata perdutamente da tre anni. Era in perenne conflitto con i genitori e riteneva di avere una timidezza patologica quando doveva esporsi in pubblico. Io, dopo aver risposto all’interrogatorio sulla mia formazione e il tipo di terapia che praticavo, mi limitai a farle notare che il giudizio degli altri e gli altri in generale sembravano essere molto importanti per lei e decisivi nel produrle emozioni positive o negative. Insomma una restituzione da cartomante o da oroscopo che si attaglia più o meno al 70% della popolazione. 

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Quando ciò avviene provo un grande avvilimento e un serio rincrescimento per tutti i soldi che sono stati spesi per farmi studiare. Poiché l’impressione che avevo ricavato era di una ragazza sveglia, intelligente ero certo che non l’avrei più né risentita, né rivista. Quest’ultimo aspetto mi provocava un sottile fastidio,  ascrivibile all’area della delusione ed esprimibile con “peccato!”. L’effetto positivo che lei aveva fatto su di me fu confermato dal trovarmi a rimuginare sull’opportunità di concedere lo sconto per studenti. Per fortuna, la vergogna di pensarmi come una tavola calda nei pressi dell’università o come un’agenzia di viaggi under-ventisette mi trattenne dal ripensarci. Per rattoppare l’autostima provai a raccontarmi che l’interesse fosse suscitato da una problematica complessa e interessante che avevo intravisto ma il  problema era, come al solito, più banale.

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Francesca era una graziosissima venticinquenne, capelli corvini e occhi marroni, piercing con brillante sul naso, sprizzante una vitalità contagiosa. Caratteristica bellezza del sud ma non sfacciata, anzi pudica e riservata quindi, ai miei occhi, non minacciosa. Una Maria Grazia Cucinotta formato famiglia o per pensionati. A parziale mia discolpa, ammesso che colpa ci sia, devo dire che il suo aspetto, decisamente più infantile della sua età, deve aver attivato in me più di ogni altro il sistema dell’accudimento.

Il bello di avere una certa età è che la memoria trattiene poco e l’oblio  è un grande consolatore. Sta di fatto che, quando tre settimane dopo Francesca mi ritelefonò per prendere appuntamento, stentai a ricordare chi fosse, poi la nuvola imbizzarrita di capelli neri mi riapparse: avevo superato l’esame e battuto gli altri psicoterapeuti vagliati, nonostante il rifiuto dello sconto. Puntatina di orgoglio subdolamente tendente a sconfinare dall’ambito professionale. Autoprescrizione terapeutica: dieci minuti davanti allo specchio, contemplazione della mia data di nascita sulla carta di identità, lettura dei commenti sul giornale in merito alle vicende erotiche del nostro premier.

Quando rivedo Francesca per il secondo incontro tutto è in perfetto ordine e sono pronto ad interessarmi davvero a lei.

Seconda figlia dopo un maschio primogenito, ha una sorella di sette anni più piccola. E’ figlia di un importante proprietario terriero, mio coetaneo, originario di un paesino della Calabria. Famiglia potente e rispettata, ha avuto uno zio sequestrato a scopo di lucro, evento che ha marcato con preoccupazioni paranoidee e isolamento protettivo l’infanzia di Francesca.

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La famiglia vive in campagna lontano dal paese, che si può raggiungere solo se accompagnati in auto dai genitori. La madre è il prototipo della massaia, regina del focolare che dirige il traffico delle comunicazioni tra i membri della famiglia e ne stabilisce la cultura ufficiale. Il primogenito è debole e andrà per sempre protetto dalle insidie del mondo, l’ultima figlia è l’orgoglio della famiglia perché brava e obbediente, il padre è irascibile e gli vanno tenute nascoste le cose anche perché potrebbe sentirsi male,  Francesca è la ribelle, la pecora nera che sputtanerà il cognome della famiglia e farà morire tutti di crepacuore.

In verità fino alle scuole medie si dimostra diligente, studiosa, devota a San Galliano protettore del paese e con un vero talento per il disegno. L’inizio del periodo di ribellione coincide con l’iscrizione al ginnasio e l’impedimento a frequentare il liceo artistico.

C’è un giorno ed un gesto preciso che segna lo spartiacque tra i due periodi. E’ un sabato del tempo di quaresima, primavera inoltrata e Francesca torna dalla lezione di catechismo, non cena neppure e si butta  sotto la doccia. Quando riemerge dal bagno, dopo quasi un’ora, ha i capelli completamente rasati. Il padre la gonfia di botte come è uso fare e la madre spiega il comportamento come una ritorsione per il veto posto sul liceo artistico.

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Nessuno gliene chiede direttamente spiegazione, la moda punk allora imperante attenua il significato personale del gesto. Francesca passa da un fidanzato all’altro, attirando su di sé la riprovazione della famiglia e le critiche di tutto il paese. Dentro di sé però mantiene un rigore puritano, ha perso la verginità a nove anni per mano di due cugini e, pur  trovando  il sesso una attività molto piacevole, si attiene rigorosamente al principio che suona “sesso senza limiti ma solo con il fidanzato, altrimenti si è irrimediabilmente puttane”.

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Poiché di uomini gliene piacciono molti ed è facilmente ricambiata ha un gran da fare nell’interrompere e iniziare nuovi fidanzamenti. Quando, terminato il liceo lascia il paese per frequentare Psicologia a Roma, il tasso ormonale dell’intera provincia decresce. Meno bisognosa di opporsi alla famiglia grazie alla distanza interposta, smette i panni della ribelle. Procede brillantemente negli studi, lavoricchia per non pesare sulla famiglia, la cui ricchezza  sembra voler ignorare quasi fosse motivo di vergogna. Per lei è essenziale farcela da sola senza alcun aiuto. Si impegna nel volontariato,  riprende a dipingere e  cessa di avere rapporti sessuali se non con l’uomo di cui è innamorata che costituisce il motivo della sua richiesta di terapia.

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Paolo ha vent’anni più di lei, è un collega che fa il mio stesso lavoro. E’ stato sposato per due anni, ora ha una fidanzata ufficiale ed una piccola schiera di “trombamiche” (è la prima volta che vengo a conoscenza di questa categoria nosografica che Francesca mi dice diffusissima) che frequenta regolarmente. La sofferenza di Francesca è dovuta non alla gelosia, sentimento meschino e antico che rifiuta,  ma al fatto che è innamorata di Paolo e vorrebbe che lo fosse anche lui. Non si tratta di esclusività che, anzi, teme la annoierebbe, né di costruire un futuro: non si vede né moglie, né tantomeno madre, vuole semplicemente essere fidanzata con Paolo per poterci fare l’amore senza il senso di colpa derivante dalla sua regola aurea circa l’esercizio della sessualità. Paolo invece non fa altro che ribadirle che sono soltanto amici, anche se dorme abbracciato a lei e la vuole a disposizione tutti i giorni per usufruirne a suo capriccio, quando le altre trombamiche sono irreperibili.

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Mi faccio l’idea che Paolo abbia timore del legame, per cui ha bisogno di stare in più situazioni per non sentirsi costretto in una sola; inoltre, quanto più Francesca lo cerca tanto più pone le distanze, ma quando è lei ad allontanarsi è lui a farsi avanti, un minuetto avanti e indietro per mantenere sempre la distanza di sicurezza. 

Per procedere in modo terapeuticamente corretto devo far chiarezza sulle mie emozioni controtrasferali, è evidente che Paolo mi sembra odioso, lo prenderei a calci e consiglierei a Francesca di fuggirlo. Sono altrettanto consapevole che parte di questo astio è dovuto a due inconfessabili emozioni quali  invidia e gelosia. D’altro canto  penso invece che tale sentimento sia interno al sistema di accudimento generato dal vedere soffrire la mia accudita, figlia o paziente che sia,  per colpa di un soggetto dal comportamento ambiguo perché malintenzionato o semplicemente gravemente disturbato. Un modo che Paolo utilizza per trattenere Francesca è interpretare continuamente i suoi comportamenti e affibbiargli diagnosi, ad esempio evitante, per smentire le quali lei si tuffa nel suo letto, salvo utilizzarne un’altra, ad esempio dipendente, quando deve far spazio per un’altra trombamica.

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Ad un certo punto , forse proprio grazie ai soldi spesi per farmi studiare, mi accorgo che ho perso di vista l’obiettivo. Non devo capire o cambiare Paolo, che non è mio paziente, non devo neppure proteggere Francesca da un cattivone che se ne approfitta, perché lei è una donna adulta e sta a lei decidere come vivere, non  devo auspicarmi la chiusura del loro rapporto o ricondurlo a categorie mie come il fidanzamento o l’amicizia.

Contemporaneamente un’ illuminazione di consapevolezza mi porta a collocare l’invidia per Paolo in una più ampia nostalgia per l’essere giovani oggi, che vuol dire disporre di categorie di pensiero più libere , che se io avessi avuto a disposizione mi avrebbero risparmiato tante lacerazioni e sofferenze. Mi rendo perfettamente conto che sono pensieri da vecchio. L’aggravante è che, ormai, non posso pensare di sentirmi vecchio, è che realmente lo sono e i vecchi, secondo me,  sono invidiosi dei giovani che gli strappano di mano la vita che avevano creduto essere per sempre loro.

Per allontanarmi dai pensieri su di me ed in considerazione del fatto che Francesca mi paga, senza sconti per farle terapia, lascio da parte me e Paolo e torno ad occuparmi di lei, cercando di definire degli obiettivi condivisi. In primo luogo a partire dalla sua richiesta proprio sul rapporto con Paolo: piuttosto che cercare di cambiare Paolo o il loro rapporto,  sembra più utile valutare quanto di positivo ci sia,  piuttosto che soffermarsi a rimuginare su quanto potrebbe andare meglio. In fondo ci sta da tre anni e continua a preferirlo a tutti gli altri spasimanti (ecco che mi esce un termine preistorico) e questa sua scelta va validata.

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In effetti Paolo, con la sua indecisione, le consente un rapporto intenso perché mai scontato, garantendola dalla noia che teme moltissimo e le consente di rimanere libera. Una madre intrusiva ai limiti dell’abuso ed un padre che, dall’inizio dell’adolescenza, ha percepito come fastidiosamente vicino, le fanno apprezzare più d’ogni altra cosa l’autonomia. In tutte le relazioni si sente soffocata dalla definizione del rapporto, capisce che Paolo non le ha mai attivato il desiderio di fuga e forse proprio per questo è la persona con cui è stata più a lungo e più intensamente.

Il passaggio successivo è quello di passare da un vissuto di vittima delle oscillazioni di vicinanza/distanza del rapporto a protagonista consapevole di tale andirivieni, che può essere visto come un modo di stare insieme. Francesca inizia a promuovere attivamente periodi di lontananza per viaggi di piacere o di studio e si concentra sul godere a pieno della vicinanza con Paolo, piuttosto che rovinarla rimuginando sulle future possibili assenze. Questo risultato lo otteniamo con due strategie: la concentrazione sul presente, sul qui ed ora, con un atteggiamento tipo mindfullness”, approfittando di un esame di Francesca in corso di preparazione e l’attenzione sul “marcatore somatico di Damasio”, altro esame in corso.

Invito Francesca ad abbandonare le valutazione strategiche per decidere cosa fare con Paolo e a concentrarsi su cosa le vada di fare, più  pancia e meno testa. La domanda non è più “cosa è meglio fare?” la cui risposta varia a seconda degli scopi presi in considerazione, ma piuttosto “cosa mi va ora di fare?” 

Vivere più serenamente nella quotidianità il rapporto con Paolo ha liberato molte energie che Francesca decide di investire in numerose altre relazioni, in modo da differenziare gli investimenti affettivi. Francesca si rende conto che le piace avere relazioni importanti, ma che preferisce non appartenere in modo esclusivo, avere  molti rapporti è più rassicurante e divertente che averne uno solo. Storicamente il desiderio di autonomia e libertà viene da una famiglia pervasiva, invadente dove il cognome definisce l’identità molto più del nome. 

Rinnovato impegno sullo studio arriva proprio da questo rileggere l’università come strada privilegiata per l’emancipazione. Rispetto agli studi ha un atteggiamento ambivalente: da un lato non se la sente di mollare l’università certificando un fallimento e vivendosi la colpa di aver fatto spendere dei soldi alla famiglia, dall’altro non se la sente di fare la psicologa per tutta la vita. Non ama identificarsi con nulla di stabile e definitivo e non vuole rinunciare alla sua vocazione artistica e creativa, che si esprime soprattutto nel dipingere e nel cucinare.

Gradualmente va immaginando un progetto ambizioso che recupera l’eredità culturale ed economica della famiglia, fino ad ora  sempre rifiutata o ignorata,  la spinta creativa e la conoscenza dei bisogni umani ottenuta con i suoi studi. L’idea è di mettere su un locale di ristorazione a sua gestione che abbia la caratteristica di un ambiente nutritivo, dove tutti i sensi possano essere appagati e le persone possano esprimere se stesse liberamente. Concretamente un locale dove si possa bere, mangiare, ascoltare musica e fare attività creative come dipingere o suonare. Francesca inizia a pensare in grande, immagina una forte sponsorizzazione della famiglia ed anche un coinvolgimento della sorella e del fratello. Il padre che già lavora nel settore come produttore potrebbe occuparsi delle forniture alimentari e degli aspetti amministrativi. Successivamente, se l’impresa funziona, pensa all’attivazione di un franchising in modo da aprire locali simili in altre città italiane ed europee. Il suo sogno è di vivere itinerante.

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E’ evidente che pensare ad un progetto del genere è stato possibile solo dopo aver modificato l’idea di essere un’ incapace, incostante e non in grado di cavarsela da sola. Questo lo abbiamo ottenuto con una rivisitazione della sua storia che, piuttosto che in termini di ribellione ed incostanza, poteva essere interpretata utilizzando come filo conduttore la ricerca di libertà e la caparbietà. Aveva sempre fatto scelte controcorrente pagandole di persona e se l’era sempre cavata brillantemente per proprio conto. Il senso di autoefficacia fu consolidato dal riconoscere l’origine di tutte le sue paure circa la malattia mentale, paure che la spingevano a cercare sempre un’ etichetta diagnostica per i suoi comportamenti.

La nonna materna, Giuseppina, era stata rinchiusa in manicomio dove era morta. Francesca la ricordava appena, per averla vista tre volte durante il periodo del ricovero. Di quegli incontri aveva un ricordo molto angosciante: la  nonna vagava, vestita da stracciona, in un vasto cortile del manicomio, circondata da altri matti e individui con mostruose malformazioni. La storia della malattia della nonna era poco conosciuta da Francesca e la invitai a ricostruirla anche alla luce delle sue attuali competenze tecniche. Per lei la nonna era sempre stata lo spettro di come sarebbe diventata e dove sarebbe finita, spettro  che le veniva agitato dinnanzi durante il periodo delle cruente ribellioni adolescenziali.

Lei temeva di avere dentro di sé il seme della follia e osservava tutti i suoi comportamenti preoccupata che ne rappresentassero il germogliare. Forse proprio per questo aveva scelto la Facoltà di Psicologia: voleva sapere cosa fosse normale e cosa no per rimanere dentro i confini. 

Giuseppina era nata alla fine dell’ottocento. Primogenita di sei sorelle, si era dedicata alle loro cure in attesa di passare ad occuparsi  delle cure dei genitori quando sarebbero diventati anziani. Tale destino fu rafforzato dalla morte del suo fidanzato durante il primo conflitto mondiale. L’anno successivo a questo lutto, tre sorelle morirono per la pandemia della spagnola e i genitori non tardarono a raggiungerle, schiacciati dal dolore. Giuseppina iniziò a parlare con i morti, in  quel mondo aveva tutti i suoi cari. La notizia di questa giovane che trascorreva le giornate in preghiera e colloquiando con i defunti si diffuse rapidamente, non  era un fenomeno isolato nella Calabria del primo novecento. Molti si rivolsero a lei se colpiti da lutti gravi ed inaspettati, per  tutti aveva parole di conforto e riferiva loro ciò che i defunti dicevano, naturalmente si trattava sempre di messaggi pieni di incoraggiamento e amore.

Il fenomeno della Giuseppina che parla coi morti assunse una certa rilevanza e alla fine anche la chiesa locale, che l’aveva inizialmente ignorata, dovette occuparsene.  Giuseppina non chiedeva alcun compenso per i suoi contatti e dunque non rappresentava un concorrente diretto. La chiesa non voleva che lei smettesse, ma piuttosto che lavorasse per loro. Gli incontri con Giuseppina sarebbero dovuti avvenire nei locali della curia e solo dopo la partecipazione alle funzioni sacre e un sacerdote avrebbe presenziato agli incontri, per assicurarsi che non fossero trasmessi messaggi contrari alla dottrina ufficiale. La chiesa non voleva una partecipazione agli utili che non c’erano ma controllare il fenomeno e condividerne i meriti. Giuseppina accettò riluttante la collaborazione, ma nel giro di tre mesi perse la capacità di contattare i defunti. Disse apertamente che i troppi peccati degli uomini di chiesa le ostacolavano la visuale e c’era bisogno di una profonda conversione. Alcuni sostennero che i peccati cui si riferiva fossero le molestie subite dal giovane prete che le era stato affiancato, ma ciò non fu mai appurato con certezza. Sta di fatto che la forza mediatica di Giuseppina si inaridì e iniziò a circolare la voce che passeggiasse la notte dentro il cimitero e facesse strani riti sulle tombe. Siccome l’accusa di stregoneria era ormai desueta, il comportamento di Giuseppina fu etichettato come folle e grazie al regio decreto del 1904, che istituiva i manicomi per la cura dei poveri dementi,  internata. Dopo la sua morte, avvenuta a soli trentasette anni, il suo corpo fu seppellito all’interno del manicomio, per evitare che i suoi fan continuassero a venerarla.

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La ricostruzione della storia della nonna fu un gran sollievo per Francesca: non si trattava di una matta di cui vergognarsi e temere l’ereditarietà, ma di una donna semplice che si inseriva nel più vasto fenomeno della fede popolare. Il passo dal vergognarsene al considerarla una eroina generosa, disinteressata e vittima della sopraffazione del potere, di cui andare fiera, fu breve. Le sembrò che la nonna incarnasse quello spirito di anticonformismo e di libertà che lei aveva sempre sentito. 

La terapia si concluse quando Francesca, finiti gli studi, lasciò l’Italia per un corso di alta cucina a Parigi. Non ho più avuto notizie di lei ma sono certo che viva felice in qualche parte del mondo.

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