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Avvantaggiamoci: una Proposta alternativa al Sistema Categoriale del DSM

Diagnosi dimensionale e intervento clinico modulare, una proposta alternativa al sistema categoriale del DSM.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 03 Gen. 2013

Aggiornato il 10 Gen. 2013 12:17

Avvantaggiamoci- una Proposta alternativa al Sistema Categoriale del DSM. - Immagine: © marsil - Fotolia.comDiagnosi dimensionale e intervento clinico modulare, una proposta alternativa al sistema categoriale del DSM

 

1. In attesa dell’ennesimo DSM

Non sarà dato alla mia generazione ma gli operatori della salute mentale che stanno completando la loro formazione in questi anni credo e auspico che assisteranno ad un cambiamento del paradigma psicopatologico. Una vera e propria rivoluzione in senso khuniano che porterà a ripensare in modo del tutto nuovo alla sofferenza mentale e produrrà nuovi e più efficaci interventi terapeutici sia in ambito neurobiologico che psicoterapico e sociale.

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L’attuale modo di pensare psicopatologico è impregnato di una mentalità categoriale che ha da sempre spinto l’uomo a operare classificazioni nei domini di proprio interesse partendo dalla premessa implicita che fossero costituiti da oggetti separati e ben distinguibili.

2. Infaticabili categorizzatori

Il motivo del successo dell’approccio categoriale lo ascrivo a due motivi. Intanto è corrispondente all’esperienza che abbiamo della natura dove gli oggetti o ci sono o non ci sono e sono distinti nettamente uno dall’altro. Inoltre è più semplice prevedendo solo decisioni binarie circa la presenza o l’assenza di un dato oggetto o al suo interno di una certa caratteristica piuttosto che la valutazione della sua intensità. Tale approccio si è consolidato nelle scienze naturalistiche (si pensi a Linneo) e si è imposto anche nella medicina dove le malattie sono considerate realtà in sé.

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A poco vale l’esperienza quotidiana che ci fa sperimentare come nel mondo dei vissuti umani (emozioni e sentimenti) la questione non sia così semplificabile. L’amicizia e l’amore hanno confini incerti e, al loro interno l’oblatività e il possesso si sovrappongono in modo confuso. Ma tale confusione non è rassicurante e preferiamo ignorarla operando quelle terribili semplificazioni verso cui ci mette in guardia Bateson. Gli stessi pazienti, impregnati di mentalità categoriale ci chiedono se un certo disturbo ce l’hanno oppure no così come ci chiedono se quello che provano è innamoramento, amore o semplice infatuazione passionale.

Vogliamo fare ordine nella nostra realtà complessa e siamo abituati a farlo forzando la multiformità del reale nei cassetti ben distinti della nostra scrivania mentale. Tale approccio ha dominato da sempre la psicopatologia sin dall’antichità ed ha trovato la sua sistematizzazione con Kraepelin psichiatra tedesco e grande ordinatore nato nello stesso anno (1856) di quel gran confusionario cui tutti dobbiamo essere riconoscenti che fu Sigmund Freud.

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Da allora la tradizione categoriale non ha avuto rivali cacciando al confino della scienza gli oppositori (Griesinger con il suo riduzionismo neurofisiologico e Jung con i suoi tipi psicologici). Quando L’approccio categoriale ha incontrato gli americani portati per natura alla semplificazione e legittimati al ruolo di padroni del mondo dalla vittoria nei conflitti mondiali il risultato è stato l’imperialismo culturale delle ricorrenti edizioni del DSM.

3. Ce l’ho…mi manca

Se si è imposto così largamente il DSM deve pur avere dei meriti ma è certo che ha ucciso il ragionamento psicopatologico. Per accertarsene è sufficiente leggere le cartelle cliniche dei manicomi dei primi del ‘900 (non solo quelle affascinanti di illustri fenomenoghi) e confrontarle con quelle dei colleghi appena usciti dalle scuole di specializzazione che, preoccupati di stabilire la presenza o l’assenza di ognuno dei molteplici criteri diagnostici, ricordano le negoziazioni delle figurine Panini attraverso la frase fatidica del “ce l’ho… mi manca”.

Il DSM si pregia di essere “ateoretico” e dunque valido per tutti, un esperanto su cui tutti possano convergere come se presupporre l’assenza di una teoria che ordini i fatti non sia a sua volta una ben precisa teoria opposta ad esempio a tutta la tradizione occidentale che va da Kant fino al costruttivismo.

4. Limiti delle categorie

Il modello categoriale del DSM presenta però alcune evidenti difficoltà:

  • Nei DP la comorbidità è la norma e non l’eccezione.
  • La soglia dei criteri necessari per formulare la diagnosi comporta un massiccio uso della categoria residua di DP NAS che è sempre un brutto segno circa la validità di un sistema nosografico
  • Non è chiaro il confine tra tratti di personalità più o meno adattivi e veri e propri disturbi di personalità e neppure tra disturbi di personalità e disturbi di asse I°.
  • Sembra, inoltre che nella scelta del trattamento, anche farmacologico, il prescrittore sia guidato più dall’attenzione all’intensità di certe dimensioni che dalla diagnosi categoriale che poi invece sarà esibita nelle presentazioni scientifiche. Per questo non è infrequente assistere alla prescrizione di neurolettici a pazienti depressi o ossessivi in cui i temi di pensieri tendano a distaccarsi dalla realtà. Lo psichiatra sembra più attento ad una ipotetica sottostante “dimensione delirante” che alla diagnosi categoriale. Altrettanto inconsueta può apparire la prescrizione di un AD ad un paziente schizofrenico con prevalenza di sintomi negativi mirata ad una “dimensione di blocco e apatia”.

 

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 4. I modelli dimensionali cresciuti in clandestinità

Nella seconda metà del ‘900 pur senza affermarsi nelle nosografie ufficiali del DSM (esplicitamente americano) e del ICD (apparentemente internazionale ma condizionato dagli americani). L’approccio dimensionale ha prodotto numerosi modelli suffragati da solidissime ricerche. In particolare vanno ricordati:

  • Il modello psicobiologico del temperamento e del carattere a sette fattori di Cloninger (1987)
  • La valutazione dimensionale della patologia di personalità che attraverso il Dimensional Assessment of personalità pathology valuta 18 tratti di personalità
  • Il modello “big five” che prevede cinque domini o dimensioni di personalità.

Non è certo questa la sede per illustrarli ma va ricordato che le ricerche successive hanno identificato, confrontando questi tre diversi modelli, quattro comuni domini su cui tutti convergono. Inoltre la ricerca ha evidenziato che queste dimensioni hanno specifici correlati psicosociali, neurobiologici e genetici e non è poco.

Otto Kernberg, Lectio Magistralis Milano-Bicocca, Narcissistic personality disorder, towards DSM-5 - Lectio Magistralis by Otto Kernberg and Frank Yeoman (2) - Immagine: © 2012 State of Mind - Anteprima
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 5. La mia proposta

Poiché ritengo che chi scrive abbia l’obbligo di non limitarsi ad una rassegna sullo stato dell’arte ma di dire la sua anche a rischio di sbilanciarsi ed esporsi a critiche e sberleffi, è giunto il momento di proporre il mio pensiero.

 

Un modello spettrale

Ritengo che tra tratti di personalità, disturbi di personalità e disturbi in asse I° esista un rapporto di spettro.

  • Tratti di personalità

Un tratto di personalità è un modo peculiare di percepire, pensare e rapportarsi nei confronti dell’ambiente e di se stessi che può essere più o meno adattivo a seconda dell’ambiente in cui opera. Il tratto ha origini genetiche (lascio alla psicologia evoluzionista la speculazione sul significato evolutivo dei vari tratti intesi come strategie diverse di adattamento) ma si potenzia per i rinforzi positivi che riceve dall’ambiente e siccome l’ambiente originario è quello familiare, composto da individui che condividono gran parte del patrimonio genetico, è assai probabile che ciò che la genetica propone l’ambiente costruisca e consolidi.

 

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  • Disturbi di personalità

Quando un tratto di personalità diventa rigido, pervasivo e dunque disadattivo (valutazione comunque imprescindibile da un ambiente di riferimento) si parla di DP. In altri termini il DP si ha quando il funzionamento della strategia adattiva in cui consiste il tratto diventa insensibile ai feed back ambientali e va per la sua strada. Così un tratto come la scrupolosità e la precisione si connota come disturbo ossessivo di personalità quando la ricerca della precisione e della scrupolosità da mezzo diventa fine, da strategia si trasforma in scopo e, in quanto tale, ostacola il raggiungimento degli scopi stessi, come ad esempio l’ossessivo che per fare le cose perfettamente finisce per non farle.

 

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  • Disturbi di asse 1°

Situazione analoga, ma più estrema, si verifica per i cosiddetti disturbi di asse I°. Tali disturbi li distinguerei in due gruppi (ecco le categorie che rientrano dalla finestra) quelli monodimensionali e quelli pluridimensionali.

Quelli monodimensionali sono l’esasperazione ancora più marcata di un tratto di personalità per cui alla “precisione-scrupolosità” segue il DP ossessivo e a questo il DOC.  Altrettanto si può dire per il DP evitante e la fobia sociale. Più in generale alla dimensione “harm avoidance” segue il cluster “B” dei DP e ad esso i disturbi d’ansia in asse I°. Ancora, come non cogliere la continuità tra la sospettosità e bizzarria i DP del cluster “A” e i disturbi psicotici in asse I°. Gli esempi potrebbero continuare ma non servirebbero a chiarire ulteriormente il concetto. Il passaggio dall’asse II° all’asse I° avviene quando il sistema cognitivo riesce ad elaborare un comportamento (sintomo) che risolvendo momentaneamente il problema dalla strategia “scopizzata” produce due effetti che lo rinforzano e lo mantengono: un immediato sollievo emotivo e la cessazione dell’esplorazione di strategie alternative. Il sintomo una volta generato diventa un potente attrattore  che monopolizza il funzionamento di tutto il sistema.

Quelli pluridimensionali sono invece specifici dell’asse I° seppure abbiano numerose radici in asse II°. Essi si generano quando diversi tratti di personalità superano un certo valore soglia e, per così dire, precipitano creando qualcosa di nuovo e diverso dai precursori.  Ad esempio per fare un DCA la dimensione “perfezionismo e controllo” deve incrociare la dimensione “problemi di identità e definizione esterna del sé” e la dimensione “importanza del corpo”. A sua volta la stessa dimensione “importanza del corpo” entra in gioco nell’ipocondria quando incontra la dimensione “harm avoidance” e nel disturbo dismorfofobico quando si sposa con la “dimensione delirante”. Anche in questo caso dell’incontro di più dimensioni il sintomo si mantiene e si rinforza perché riesce a soddisfarle tutte.

 

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Tra i vantaggi di un modello dimensionale va ascritto anche il fatto che esso è facilmente traducibile in uno categoriale essendo sufficiente stabilire dei valori di “cut off” per le singole dimensioni, qualora ad esempio  ci sia l’utilità di categorizzare per motivi di comunicazione in ambito di ricerca. Il contrario invece è praticamente impossibile.

 

Implicazioni terapeutiche

Tutto quanto sostenuto finora ha delle implicazioni terapeutiche? A mio avviso decisive.

L’assetto categoriale della nosografia ha dato origine ai protocolli e a tutta una serie di studi sulla loro efficacia. I protocolli tuttavia vengono utilizzati più in contesti di ricerca, medico legale e assicurativo che nella pratica clinica reale proprio perché i pazienti presentano spesso molteplici comorbidità.

Nel cognitivismo italiano sono apparsi negli ultimi anni ipotesi terapeutiche focalizzate su aspetti dimensionali. In particolare “La dimensione delirante” di B. Coratti e R. Lorenzini del 2008 e “Sviluppi Traumatici: etiopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa” di B. Farina e G. Liotti del 2011.

 

LEGGI LA RECENSIONE DI “Sviluppi Traumatici: etiopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa ” DI GIOVANNI MARIA RUGGIERO

 

 

Già in passato nel volume “Psicoterapia cognitiva dell’ansia” curato con Sandra Sassaroli e Giovanni Maria Ruggiero del 2006 avevo proposto l’idea della terapia modulare come superamento dei protocolli e ad esso si rimanda per approfondimenti. In questa sede basta ricordarne alcune idee:

"Il Colloquio in Psicoterapia Cognitiva” Di G.M. Ruggiero e S. Sassaroli – Febbraio 2013
Articolo Consigliato: “Il Colloquio in Psicoterapia Cognitiva” Di G.M. Ruggiero e S. Sassaroli – Febbraio 2013
  • Le persone non sono mai riducibili ad una diagnosi e sono sempre qualcosa in più ad esempio grazie alle loro specifiche risorse.
  • All’interno di una stessa diagnosi convivono situazioni cliniche molto diverse.
  • Una patologia è scomponibile in diversi aspetti ciascuno dei quali, oltreché presente può avere intensità differente e contribuire al mantenimento della sofferenza con peso diverso.
  • Per ciascuno di questi aspetti è immaginabile un modulo di intervento di efficacia valutata empiricamente la cui collocazione nel timing della terapia, intensità e durata andrà valutata per ogni singolo paziente.
  • Moduli identici possono essere presenti nella terapia di disturbi diversi: si pensi ad un modulo psicoeducativo sulle emozioni indispensabile e sostanzialmente simile in tutti i disturbi d’ansia, con un evidente vantaggio anche in termini di formazione.
  • Ogni terapia è costituita di tanti singoli moduli, ognuno come un mattoncino di lego concorre alla struttura complessiva.
  • Ogni modulo è come una micro terapia di un aspetto del disturbo

 

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In questo modo ai protocolli che sono dei vestiti su misura di indubbia qualità ma fatti in serie, si sostituisce l’opera artigianale del sarto (psicoterapeuta) che pur avvalendosi di tessuti e procedure di provata efficacia e qualità modella la terapia su misura del singolo paziente. Con un doppio vantaggio. Per il paziente di essere considerato e valorizzato per la sua unicità. Per il terapeuta di essere al momento insostituibile da qualsiasi macchina “applica protocolli standardizzati”.

 

LEGGI LA RUBRICA “STORIE DI TERAPIE” DI ROBERTO LORENZINI

 

 

Ho scritto queste riflessioni perché mi auguro che la ricerca in ambito psicopatologico si sviluppi in direzione dimensionale e in ambito clinico in direzione modulare. Il titolo di questo articolo è dunque un invito a percorrere per primi la strada della dimensionalità anche nell’intervento terapeutico.

LEGGI ARTICOLI SU: 

DIAGNOSTIC AND STATISTICAL MANUAL OF MENTAL DISORDERS – DSM 5 – DISTURBI DI PERSONALITA’ – IN TERAPIA

 

BIBLIOGRAFIA:

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