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Lance Armstrong, la Prepotenza del Perfezionismo

La confessione di Lance Armstrong sul doping ci permette di entrare nelle dinamiche psicologiche e sociologiche di questo dramma sportivo.

Di Redazione

Pubblicato il 24 Gen. 2013

di Luca Morganti

Lance Armstrong, la prepotenza del perfezionismo - Immagine: Creative commons License © DonkeyHotey
Lance Armstrong, ex ciclista professionista. Caricatura (2013)


Lance Armstrong, la prepotenza del perfezionismo

E alla fine arriva la verità. O meglio, la versione di Lance.

La confessione di Armstrong ci permette di entrare meglio nelle dinamiche sociologiche e psicologiche di questo dramma sportivo.

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Messo alle strette da ripetute confessioni e reciproche accuse di ex compagni di squadre e collaboratori, Lance Armstrong ha confessato l’uso di sostanze dopanti per vincere i suoi 7 Tour de France, la più importante corsa di ciclismo su strada, consecutivamente dal 1999 al 2005. La condanna sportiva è già stata in parte pronunciata, con la revoca dei titoli acquisiti sul campo, anche se nessun test effettuato allora ha mai provato la colpevolezza dell’americano: solo analisi successive, infatti, hanno evidenziato possibili anomalie nei campioni ematici. Al di là quindi dell’aspetto giudiziario sulla procedura e sull’esito della sentenza, la confessione di Armstrong ci permette di entrare meglio nelle dinamiche sociologiche e psicologiche di questo dramma sportivo.

Armstrong confessa tutto fin da subito: l’assunzione di farmaci, ormoni ed emotrasfusioni. Poi la domanda della compiacente intervistatrice amplia l’orizzonte:

DOMANDA: “è possibile vincere 7 volte di fila il tour senza doparsi?”
RISPOSTA: “Non in questa generazione ciclistica”.

Lo sapevamo, sia noi telespettatori innamorati dello sport sia l’intervistatrice. E forse lo sapevano tutti. Qualche anno fa, Schneider (2007) analizzò scientificamente le sfumature culturali del doping al Tour de France: una sorta di sospensione del giudizio tra la linea proibizionista e la passione culturale, sulla soglia dell’accettabilità di una pratica che forse spesso si dimentica essere dannosa per la salute degli atleti. Senza contare l’uso di sacche di sangue, che potrebbero servire a più meritevoli scopi. Teniamo ben presente tutto questo quando sentiamo proposte di liberizzazione del doping o di una sua visione più relativista (Tamburrini, 2006), alcune addirittura in nome di una competizione scientifica verso la ricerca di una miscela migliore.

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Dove sta l’uomo Lance Armstrong? Lui si colloca subito nella sua storia perfetta, di uomo che sconfigge il cancro in giovane età, poi diventa campione ed ha una famiglia modello. Molto americano, molto ego-oriented. E poi il suo personale rammarico: “non ho saputo gestirla”.

Perché “è una mia colpa non aver fermato la cultura del doping” – dice – “ma su 200 eroi c’erano 5 che non si dopavano”. Entriamo davvero nella sua psiche quando si definisce come “un prepotente, perché volevo sempre avere la situazione sotto controllo”, aggiungendo che l’arrivo del cancro – improvviso ed incontrollabile – ha esasperato questa sua combattività e desiderio di controllo. Intollerabile vivere con quell’incertezza su ciò che accade, meglio correre sapendo in partenza che la vittoria è sicura grazie al doping – come ha candidamente ammesso.

Lo scacco matto è dovuto al perfezionismo di Lance, autore un meccanismo curato al dettaglio, disumano o forse semplicemente troppo umano. L’unico particolare che è sfuggito gli è costato caro: nel 2009 rientra alle corse, senza doparsi, con modesti risultati. Il suo ritorno crea gelosie nei nuovi compagni, gli toglie visibilità, e spinge alle prime confessioni. Ora di quel ritorno si pente, l’unico vero rammarico personale è contro la voglia di rientrare, di fare sport. Vorrebbe tornare indietro, ma non può. Non può controllare le reazioni degli altri. Non può gestire un sistema che prima lo designa eroe e poi invece, quando lui vuole rientrare, non lo accoglie più.

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La storia si è svolta così, nel perfezionismo non è tollerata l’incertezza di non vincere, c’è la volontà di domare gli altri con prepotenza e sentendosi sopra le parti. Quando Armstrong si interroga sulla liceità del comportamento, chiede alla sua coscienza. Ma gli risponde il vocabolario: “dice che una persona imbroglia quando si avvantaggia su un rivale con un metodo scorretto di cui altri non dispongono” afferma il texano “credo fosse una battaglia tra pari”.

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La diffusione di responsabilità come meccanismo per non eliminare il senso di colpa e continuare nella menzogna, nel meccanismo perfetto: all’interno di un contesto che si lascia leggere in questo modo, come fa notare anche Bette (2011).

Gli atleti stessi riconoscono e sentono il peso di un contesto che li schiaccia, valutando il doping come risposta ad eccessive pressioni ambientali (Mroczkowska, 2010). Lo stesso accadde con Alex Schwazer in estate, reo confesso a causa dell’eccessiva aspettativa sulla ripetizione dei suoi successi.

La linea da seguire appare semplice, promuovendo con forza un approccio allo sport visto come possibilità di migliorare la propria performance (task oriented) più che come mezzo per affermare il proprio io (ego oriented): lezione già teorizzata da Joan Duda (1995). E se forse questo non basta e la letteratura può essere discordante (Petroczi, 2007), la realtà quotidiana ci suggerisce che pratica sport in maniera più soddisfacente chi lo fa per migliorarsi, divertirsi e confrontarsi con se stesso piuttosto che chi lo fa con l’obiettivo prepotente di affermarsi superando gli avversari a tutti i costi.

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