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Recensione: La Migliore Offerta di Tornatore- Ritratto di un Escluso

La Migliore Offerta - Recensione: Si rivela la fragilità del protagonista, che obbligato a confrontarsi con la passione, perde la testa.

Di Silvia Dioni

Pubblicato il 15 Gen. 2013

La Migliore Offerta

di Giuseppe Tornatore

Recensione

 

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La Migliore Offerta – Recensione: Si rivela la fragilità del protagonista, che obbligato a confrontarsi con la passione, perde la testa.

L’ ultimo film di Tornatore La Migliore Offerta si propone come un misurato mystery psicologico; non certo un thriller mozzafiato giocato su intrecci di complessità algoritmica, ma un intrigo dal sapore un po’ retrò costellato di enigmi (veri o immaginari) e presunte verità che si rivelano di volta in volta non essere mai tali.

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Organo propulsore di tutto l’impianto è la figura del protagonista, grazie anche alla lodevole interpretazione di Geoffrey Rush nei panni di Virgil Oldman, noto e ricchissimo battitore d’aste, imbattibile nello stimare e riconoscere capovalori d’arte ma umanamente indurito da tutta una serie di manie, superstizioni e piccole fobie che, benché non gli impediscano di eccellere nel suo mestiere, ne minano irrimediabilmente le competenze sociali e relazionali.

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All’inizio della vicenda la vita di Oldman sembra malgrado tutto scorrere tranquilla su binari ben oliati, impostata com è ad un rigido controllo (sic) delle potenziali intrusioni dal mondo esterno (guanti e fazzoletto sulla cornetta sono dettagli un po’ didascalici, ma servono a tratteggiare la psicologia del personaggio), fino a quando non entra in scena una giovane e misteriosa ereditiera che convoca il professionista per effettuare una stima del proprio patrimonio, custodito in una fatiscente e meravigliosa villa dalle atmosfere un po’ hitchcockiane.

Da questo momento in avanti ne La Migliore Offerta si rivela la fragilità psicologica del protagonista, che obbligato a confrontarsi con la passione per una donna reale (fino a quel momento si era limitato ad amare le donne dei dipinti che collezionava da una vita), perde immediatamente la bussola.

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Il confronto con l’esistenza vera (o presunta tale) compromette il suo faticoso e misurato distacco e ne smaschera l’ingenuità e la miopia; dal momento in cui non gli è più possibile nascondersi dietro un’ostentata sterilità affettiva, si dimostra sfacciatamente impacciato e vulnerabile.

Al di là quindi dei meriti (e demeriti) artistico-cinematografici della pellicola, credo sia interessante riflettere sull’evoluzione di questa personalità nevrotica e ossessiva, e sulla debolezza di certe strutture psicologiche all’apparenza granitiche e incontrastabili.

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L’atteggiamento iniziale del protagonista de La Migliore Offerta è improntato a un tipico, ineccepibile senso del dovere e a  un’altrettanto intransigente pretesa di impeccabilità nel comportamento altrui; quando la misteriosa committente insiste a non presentarsi agli appuntamenti, adducendo scuse sempre più inverosimili, Virgil ha una reazione violenta e disordinata, perché intuisce la minaccia alla sua abitudine di avere tutte le situazioni perfettamente sotto controllo.

In generale, il  suo coinvolgimento interpersonale è pressoché nullo, tant’è che lo sentiamo chiedere ad uno dei suoi più stretti collaboratori e con cui lavora da una vita se sia sposato, e da quanto tempo.

Non ha alcun senso del ludico; la scena del ristorante in cui siede solo, coartato (e con i guanti) di fronte ad una torta di compleanno offertagli dal titolare, che non assaggerà perché si dice molto superstizioso e mancano alcuni minuti alla mezzanotte, rappresenta bene l’estraneità siderale che lo separa dagli altri personaggi che invece si godono la cena, e la tonalità emotiva che ne deriva.

L’eccessiva pretesa d’impeccabilità lo rende disarmato anche di fronte alla critica più banale; l’ereditiera che gli fa notare, con tono un po’ sprezzante, di non sopportare gli uomini che si tingono i capelli attiva immediatamente in lui il bisogno disperato di ripristinare un’immagine positiva di sé correndo dal barbiere a farsi togliere la tintura per scongiurare il rischio che il disprezzo altrui si traduca in disgusto ai propri stessi occhi.

 Il regista accenna in maniera un po’ frettolosa al trauma infantile (che non si nega a nessuno) a cui lo spettatore può far risalire il bizzaro comportamento di Virgil: un’infanzia passata in orfanotrofio, vittima di suore che con sadico compiacimento lo punivano facendolo sgobbare nel negozio di un antiquario.

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Da questa esperienza originaria il grande amore per l’arte, ma anche le ombrosità emotive e relazionali; Virgil s’ illude di sostituire il proprio nulla sul piano affettivo con l’estasi che prova ad ammirare i suoi dipinti femminili, depositari quindi per lui non tanto di un incalcolabile valore economico (su cui in realtà il cinico spettatore prova a fare due rapidi e increduli calcoli, durante la bellissima scena all’interno del caveau) ma della miracolosa investitura di fargli sperimentare una qualche intimità sentimentale, che possa redimerlo da quella intimità repressa e deviata che sperimenta nella vita reale, di cui non capisce assolutamente nulla.

Un bell’esempio di come le persone sofferenti si sforzino di difendere dolorosamente il proprio limitato orizzonte cognitivo ed emotivo, e di come in questo pericoloso lavorio perdano però la capacità di sentire gli altri, di capirli e di interpretarne le reali intenzioni e motivazioni.

 

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Silvia Dioni
Silvia Dioni

Psicologa Psicoterapeuta laureata presso l’Università degli Studi di Parma e specializzata in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale all’Istituto “Studi Cognitivi” di Modena.

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