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Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #2

Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi: La prima piaga: la sofferenza emotiva concettualizzata come una malattia fisica.

Di Paolo Azzone

Pubblicato il 10 Gen. 2013

Aggiornato il 06 Mag. 2013 13:40

Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #2. - Immagine: © NLshop - Fotolia.com

Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi: La prima piaga: la sofferenza emotiva concettualizzata come una malattia fisica.

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Freud era un medico e praticò la medicina interna e poi la neurologia per molti anni, all’inizio della sua attività professionale. Utilizzò sempre nel suo lavoro le classificazioni dei disturbi psichici della psichiatria a lui contemporanea, e giunse ad influenzarla a sua volta (si pensi all’isteria d’angoscia, poi divenuta disturbo di panico nella classificazione DSM IV).

Le ricerche di Freud, tuttavia, non si focalizzarono sulle disfunzioni cerebrali. Grazie alla scoperta dell’inconscio Freud poté comprendere le forze psicologiche responsabili della genesi dell’isteria e di altre configurazioni emotive e comportamentali disfunzionali. Coerentemente con la consapevolezza che molti disturbi psichici hanno una base psicologica, Freud patrocinò l’ingresso di professionisti non medici nel campo della psicoterapia.

Nella prospettiva freudiana, dunque, la pratica psicoanalitica non ha una relazione necessaria con la medicina e la neurologia. Tuttavia, Freud non scisse mai del tutto i legami con la pratica medica in termini di concettualizzazione della sofferenza emotiva. Mentre apriva nuove vie applicando la teoria psicoanalitica a testi letterari, alle opere d’arte ed allo studio delle religioni, continuò a credere che il prestigio sociale della psicoanalisi dipendesse necessariamente dalla sua efficacia come strumento terapeutico capace di guarire varie sindromi cliniche.

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Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi: Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea. - Immagine: © hellotim - Fotolia.com
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La storia della psicoanalisi è ormai molto lunga. Gli obiettivi del lavoro psicoanalitico si sono molto ampliati. I benefici attesi da un trattamento psicoanalitico vanno molto oltre il miglioramento sintomatico. Già negli anni ’30 si è raggiunta la consapevolezza che lo specifico obiettivo di un trattamento psicoanalitico dovrebbe essere un cambiamento strutturale, un cambiamento permanente della personalità che includa il superamento del complesso di Edipo, lo sviluppo di meccanismi di difesa più maturi, il raggiungimento di un adeguato insight rispetto ai propri conflitti, un allentamento della rigidità del super io.

Da questo punto di vista, gli sviluppi del pensiero psicoanalitico al di fuori dell’ambito della psicologia dell’io hanno comportato un’estensione ancora maggiore degli obiettivi del trattamento. Obiettivi che oggi includono la riparazione di ferite narcisistiche, il raggiungimento dell’integrazione dell’identità, l’introiezione stabile delle imago parentali, la consapevolezza del dolore implicito nei processi di crescita e una maggiore capacità di contenere ed elaborare cognitivamente le emozioni negative.

La relazione degli obiettivi del trattamento psicoanalitico con il modello medico di malattia mentale è ormai molto debole. Un miglioramento sintomatico, per come è comunemente concettualizzato dalla psicopatologia descrittiva, può rappresentare tutt’al più un’auspicabile ricaduta positiva di cambiamenti che si realizzano a livelli più profondi. E tuttavia la psicoanalisi ha avuto molta difficoltà a sciogliersi da uno stretto legame con la nosografia psichiatrica. I clinici hanno continuato a credere che il valore sociale della psicoanalisi e la relativa possibilità di ricevere sostegno finanziario dalle istituzioni sanitarie dipenda in modo cruciale dalla percezione della psicoanalisi come uno degli strumenti terapeutici della medicina.

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 Tuttavia, la concettualizzazione nosografica della sofferenza emotiva non è del tutto idonea alle specifiche esigenze e mete del lavoro psicoanalitico. La psicoanalisi non è una terapia, e può essere più utilmente concettualizzata come un processo interpersonale finalizzato a realizzare cambiamenti profondi. Come dice il proverbio: “La farina del diavolo va tutta in crusca”. Ogni confusione tra conoscenza ed esigenze di supporto sociale è destinata a produrre una distorsione dei processi di organizzazione dell’informazione.

La psichiatria tratta le esperienze emotive dell’uomo come fatti obiettivi. E le classifica secondo valori ed aspettative. Giudica alcune sane, cioè auspicabili, appropriate e gradite, ed altre come patologiche, in quanto, inadeguate, socialmente sgradite e di ostacolo al funzionamento sociale e familiare. La psichiatria classifica i comportamenti, e di conseguenza gli esseri umani: sani, nevrotici, psicotici.

La psicoanalisi si rivolge alle emozioni ed ai desideri dell’uomo. E tuttavia la necessità di sintesi del materiale e la citata pressione per ottenere consenso ed apprezzamento nella realtà sociale tendono a promuovere generalizzazioni categoriali o dimensionali. Nel nostro lavoro quotidiano possiamo così parlare di struttura ossessiva, funzionamento psicotico, pazienti borderline.

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Impercettibilmente ma irresistibilmente cediamo così all’abitudine di classificare gli esseri umani. L’analizzando diventa un paziente. Un intreccio di relazioni oggettuali interne, paure e difese diventa una malattia. Un giudizio morale rispetto ai percorsi di sviluppo più meno adeguati dell’essere umano si insedia nel nostro pensiero e linguaggio psicoanalitici quotidiani, e sostituisce la necessaria neutralità rispetto ai fini ultimi dell’analizzando.

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Veniamo così a perdere la consapevolezza che il paziente si muove in un ambiente umano reale. Che la cosiddetta malattia mentale non è un fenomeno naturale o la distorsione di uno sviluppo fisiologico. Consiste invece in una complessa rete di strategie intrapsichiche ed interpersonali. Implica meccanismi di adattamento o reazione a relazioni oggettuali esterne spesso tragiche od estremamente primitive. Esprime frequentemente tentativi di controllo delle risposte degli oggetti di amore più intimi. E’ sempre in relazione con il fondamentale bisogno dell’uomo di comunicare e condividere le radici della sofferenza emotiva.

Non possiamo affidare il prestigio sociale della psicoanalisi ad un atteggiamento di imitazione del pensiero psichiatrico e della prassi medica. La percezione del contributo della psicoanalisi alla società contemporanea – un contributo che io ritengo vitale ed insostituibile – dipende in realtà dalla nostra capacità di mostrare come la psicoanalisi possa aiutare l’individuo a crescere, a costruire relazioni intime stabili, a tollerare il dolore.

La psicoanalisi non è una tecnologia medica, è una via per costruire speranza e realizzare processi di cambiamento.

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Paolo Azzone
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Psichiatra, Psicoterapeuta, Psicoanalista

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