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Brian Wilson e un Pericoloso Controtransfert Surf-Rock

Con Brian Wilson, in realtà, la tecnica utilizzata dal Dr. Landy fu decisamente poco ortodossa: una terapia costante 24 ore su 24.

Di Gaspare Palmieri

Pubblicato il 24 Dic. 2012

Aggiornato il 03 Lug. 2013 12:25

 

God only knows what I’d be without you…

God only knows, Beach Boys, 1968

Brian Wilson e un Pericoloso Controtransfert Surf-Rock

Con Brian Wilson, in realtà, la tecnica utilizzata da Landy fu decisamente poco ortodossa: una terapia costante 24 ore su 24, che abbracciava “ogni aspetto fisico, psichico, personale, sociale e sessuale” della vita del musicista, che comunque ebbe successo nel limitare l’abuso di droga da parte di Wilson e nel ristabilire la sua salute mentale e fisica con l’imposizione di diete ferree, esercizio fisico, e sedute di psicoterapia. 

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I Beach Boys sono una celebre band surf-rock statunitense, formatasi nel 1961, che ha riscosso un grande successo negli anni sessanta con canzoni orecchiabilissime e spensierate che spingono l’immaginazione verso spiagge californiane, ragazze abbronzate in bikini e auto cabriolet al tramonto. La band, piazzatasi al dodicesimo posto tra i migliori cento artisti di tutti i tempi, secondo l’autorevole rivista Rolling Stone (2004), si è riunita proprio quest’anno per un tour mondiale, visto che le reunion geriatric rock tirano di brutto negli ultimi anni.

Brian Wilson è stato bassista, pianista e per anni leader della band nel periodo dei maggiori successi, fino alla comparsa di inevitabili incomprensioni che lo portarono ad uscirne negli anni settanta.

Jimi Hendrix. - Immagine: © Louis Fermando : Sonia Maria. Licenza Creative Commons 2.0
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Affetto da un disturbo schizoaffettivo diagnosticato solo tardivamente, cresciuto in un contesto famigliare problematico, dotatissimo dal punto di vista compositivo, nonostante fosse sordo da un orecchio (pare in seguito alle botte del padre), Brian Wilson è stato l’autore dei principali successi del gruppo. 

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A metà degli anni settanta, all’apice della carriera e della notorietà attraversò un periodo di grave disagio psicologico caratterizzato da sintomatologia depressiva, dispercezioni uditive ed abuso di sostanze (in particolare cocaina).

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La moglie preoccupata decise allora di contattare il controverso psicologo Eugene Landy (1934-2006) per un consulto, che si tramutò in una lunga e intermittente presa in carico dal 1975 al 1991. Il Dr. Landy, professionista alquanto singolare, prima di laurearsi in psicologia all’Università dell’Oklaoma, era stato distributore di dischi di musica afroamericana per dj, aveva prodotto un programma radiofonico nazionale, ed era stato manager del chitarrista jazz George Benson (quello di Give me the night). Dopo la laurea lavorò in un Servizio per Doppia Diagnosi a Los Angeles, insegnò all’Università della California e si dedicò alla libera professione psicoterapeutica, seguendo un indirizzo gestaltico.

Con Brian Wilson, in realtà, la tecnica utilizzata da Landy fu decisamente poco ortodossa: una terapia costante 24 ore su 24, che abbracciava “ogni aspetto fisico, psichico, personale, sociale e sessuale” della vita del musicista, che comunque ebbe successo nel limitare l’abuso di droga da parte di Wilson e nel ristabilire la sua salute mentale e fisica con l’imposizione di diete ferree, esercizio fisico, e sedute di psicoterapia. 

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Nel trattamento erano anche comprese secchiate d’acqua fredda al mattino nel caso in cui il paziente non volesse alzarsi e chiusura a chiave del frigorifero per evitare binging di alimenti e alcolici. Il dottor Landy, che definiva la cura “Milieau therapy” (terapia ambientale) lavorava con un’ equipe di collaboratori, completamente dedicata a Wilson, che per lunghi periodi era l’unico paziente dello psicologo. C’era chiaramente anche un controllo completo sulla vita di relazione del paziente e la seconda moglie Melinda ricorda come all’inizio della frequentazione con Wilson, la coppia (entrambi intorno ai quarant’anni) era costretta a vedersi in clandestinità perché il dottor Landy osteggiava il rapporto.

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La terapia venne sospesa l’anno successivo quando lo psicologo propose  di raddoppiare la parcella a ventimila dollari al mese (alla faccia dell’etica).

Nel 1983, in occasione di una ricaduta, il dottor Landy venne nuovamente ingaggiato questa volta alla tariffa di trentacinquemila dollari al mese e per coprire il costo esorbitante, vennero ceduti allo psicologo un quarto dei diritti editoriali della band. L’invischiamento in aspetti extraterapeutici continuò ad aumentare progressivamente e cinque anni dopo il dottor Landy assunse il ruolo di manager, produttore esecutivo e coautore dei brani e dell’autobiografia di Brian Wilson, formalizzato anche dalla creazione della società Brains and Genius da parte della coppia (Carlin, 2006).

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Nel 1989, i famigliari del musicista, preoccupati per l’enorme influenza del terapeuta, tentarono di dividere la coppia senza successo. Ci riuscì invece una sentenza della corte federale l’anno successivo, che identificando il reato di circonvenzione di incapace, intimò al dottor Landy di tenersi a distanza da Brian Wilson. A questo seguì la sospensione della licenza a esercitare come psicologo in California per due anni (continuò poi a lavorare trasferendosi alle Hawaii). 

L’esperienza terapeutica fu talmente intensa che Brian Wilson in un’intervista definì quel periodo come “gli anni di Landy” e dichiarò di sentirsi ”devastato” dopo la morte dello specialista avvenuta nel 2006.

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Appare evidente come in questo caso clinico il terapeuta abbia decisamente oltrepassato di gran lunga i confini del setting, probabilmente spinto dai propri bisogni narcisistici di entrare egli stesso nel firmamento del rock, e non accontentandosi del ruolo di “psicologo delle star”. 

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E’ d’obbligo a questo punto fare qualche riflessione su un concetto vecchio come il cucco, ma che dovrebbe sempre guidare chi cura in psichiatria: il controtransfert e la sua analisi. Domande come: cosa provo per questo paziente? Compassione? Tenerezza? Rabbia? Invidia? Ammirazione?

Ad esempio, nella mia pratica privata di psicoterapeuta mi è capitato di curare musicisti e altri artisti e di immedesimarmi, solidarizzare, talvolta anche esaltarmi un po’ nella condivisione della comune passione. In questi casi ho sempre cercato di tendere verso una relazione che favorisse la messa in gioco soprattutto dei sistemi cooperativi paritetici (Liotti e Monticelli, 2008), devo dire il più delle volte con buoni risultati.

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Ma a volte non è così facile, la fascinazione per certi pazienti può essere motivante a livello terapeutico da una parte, ma dall’altra può minacciare i confini della terapia. Desideri, fantasie o richieste di assistere a eventuali esibizioni, di collaborare a un progetto comune possono presentarsi nel percorso coi pazienti artisti, sia da una parte che dall’altra del setting (soprattutto quando anche il terapeuta ha velleità artistiche).

Se per un attimo ci si sforzasse inoltre di tralasciare gli aspetti etici, si potrebbe inoltre restare colpiti dal fatto che, almeno per certi periodi, il “metodo Landy” abbia avuto successo per quanto riguarda l’astensione dall’abuso di sostanze e i miglioramenti della sintomatologia depressiva, che aveva portato il musicista a un grave stato di apatia con presenza di ideazione autolesiva.

Il motivo principale per cui questa cura intensiva, poi degenerata, ha funzionato è dovuto senz’altro all’effetto protettivo. Se ci si pensa è simile a quello che succede quando una persona affetta da abuso di sostanze e problemi psichiatrici entra in una comunità terapeutica o in un reparto: sente la protezione dei muri e dell’equipe curante e questo, insieme a un’adeguata terapia farmacologica, ha un effetto quasi immediato di alleviare l’angoscia.

In questo caso, invece che essere il paziente a entrare in una struttura (da tenere a mente come spesso è davvero un’impresa convincere queste persone a curarsi, soprattutto se ricche e famose), è stata l’intera equipe a trasferirsi a casa del paziente. In Inghilterra negli Stati Uniti (Smyth e Hoult, 2000), nell’ambito del servizio pubblico, esistono da anni dei servizi di assistenza psichiatrica domiciliare, sia per abbattere i costi dei ricoveri, sia per favorire la cura di persone che hanno difficoltà a frequentare i servizi territoriali (il cosiddetto outreach). In questi tempi di spending review trovare alternative ai costosissimi ricoveri sta diventando di vitale importanza. Entrare però a casa delle persone e di conseguenza nella vita delle persone richiede in chi cura un continuo monitoraggio del proprio setting interno.

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Lo psicanalista Gabbard (1995) nel suo interessantissimo libro Violazioni del setting, oltre a trattare approfonditamente il tema delle violazioni sessuali in psicoterapia, affronta anche le violazioni non sessuali e parla di una “china scivolosa”, come di una graduale erosione dei confini del rapporto terapeutico.

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Da quando gli stessi psicanalisti hanno riconosciuto sempre di più l’importanza della soggettività di chi cura ai fini di costruire una buona alleanza terapeutica, la figura positivista del terapeuta “schermo bianco” è sempre meno sostenibile. Nonostante le dinamiche transferali e controtrasferali agiscano spesso al di fuori della coscienza, la domanda da porci credo sia sempre quella: ma andando incontro ai bisogni dei pazienti, non è che stiamo soddisfacendo soprattutto i nostri di bisogni?

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D’altra parte il desiderio di curare e di essere curati sono due lati di una moneta estremamente sottile. 

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