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Disturbo Borderline di Personalità (DBP): lettura magistrale di John Gunderson

Disturbo Borderline di Personalità: dalle linee guida alla pratica clinica. Lettura magistrale di J. Gunderson in video conferenza da Boston

Di Francesca Martino

Pubblicato il 12 Nov. 2012

Aggiornato il 02 Gen. 2013 12:57

Francesca Martino.

 

Disturbo Borderline di Personalità: dalle linee guida alla pratica clinica, 18-19 ottobre Cesenatico

Lettura magistrale di John Gunderson in video conferenza da Boston

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Prof. Gunderson - Disturbo Borderline di Personalità. 18 ottobre 2012. Cesenatico.LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’

Il comune di Cesenatico ospita la 5 edizione del Convegno Regionale sul Disturbo Borderline di Personalità che quest’anno vede intervenire John Gunderson, Psichiatra direttore del Centro per i Disturbi di Personalità presso il McLean Hospital dell’università di Harvard di Boston. La sessione è stata coordinata da Maria Elena Ridolfi, psichiatra presso la ASUR di Fano e allieva del professore durante la sua formazione negli Stati Uniti.

Il Prof. Gunderson ha diviso il suo intervento in 4 parti: la diagnosi, l’eziopatogenesi, il decorso clinico e il trattamento. 

1- La diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità. Nel primo segmento, Gunderson ha fatto un accenno alla diagnosi del Disturbo Borderline di Personalità, prevista nel DSM-5. Il nuovo manuale fornirà ai clinici una descrizione del disturbo che non si discosta eccessivamente dalla diagnosi del DSM IV, ma che garantirà, grazie alla sua metodologia dimensionale, la possibilità di stabilire la “gravità” del disturbo e delle aree specifiche dalle quali è caratterizzato. 

Il Disturbo Borderline di Personalità sarà determinato da un criterio nucleare (A) definito da (1) una compromissione del funzionamento del sé, ovvero da un’immagine di sé instabile, sentimenti di vuoto/solitudine, instabilità negli scopi e assenza di progettualità e da (2) una compromissione del funzionamento interpersonale costituito dalla difficoltà di “vicinanza affettiva”caratterizzata da una pervasiva preoccupazione di essere rifiutati e abbandonati e allo stesso tempo dal timore che l’eccessiva intimità possa essere “minacciosa”.

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Il secondo criterio (B), indagato solo se viene soddisfatto il primo, riguarda: (1) affettività negativa, ovvero la labilità emotiva e la sintomatologia ansiosa e depressiva; (2) disinibizione, espressa con la tendenza all’impulsività e con i comportamenti rischiosi;  (3) antagonismo, ovvero la tendenza pervasiva all’ostilità.

Tali tratti devono  inoltre essere relativamente stabili nel tempo (C), non imputabili a caratteristiche socio-culturali (D) o all’alterazione dovuta all’effetto di sostanze (E). 

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La sessione si chiude con delle raccomandazioni cliniche. Gunderson sottolinea l’importanza di comunicare la diagnosi al paziente, in quanto quest’ “azione terapeutica” contribuisce a ridurre il senso di alienazione, il biasimo e la critica da parte dell’ambiente, a preparare le basi per un’alleanza di lavoro, primo passo nella cura dei pazienti “difficili”.  

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Come comunicare la diagnosi? chiedono dal pubblico. “Potremmo utilizzare un approccio più descrittivo, leggendo al paziente i criteri e chiedendogli quanto si sente rispecchiato da tale fotografia o seguire un approccio più narrativo spiegando che esistono delle persone più “sensibili” agli eventi interpersonali, dunque possiedono bisogni maggiori che necessitano di attenzioni particolari per essere soddisfatti, e che spesso l’ambiente non è in grado di comprendere tali bisogni e quindi di fornire le attenzioni richieste”.

2- L’eziopatogenesi del Disturbo Borderline di Personalità. Gli studi che si sono concentrati sul ruolo della componente genetica nello sviluppo di un Disturbo Borderline di Personalità ne hanno sostenuto una parziale ereditarietà, del 50% circa. Recentemente (Distel 2012) è stata ipotizzata invece la trasmissibilità solo di alcune componenti, come l’impulsività, ma non del disturbo nel suo complesso. Altri autori si sono invece soffermati sull’ impatto decisivo della variabile socio-ambientale nello sviluppo del disturbo. Da questa concezione si snodano una serie di orientamenti teorici che individuano l’ “origine” del disturbo nella presenza di un’esperienza traumatica precoce (Kernberg, 1994), nell’interazione di una vulnerabilità biologica e un ambiente invalidante (Linehan 1993), in una relazione di attaccamento fallimentare (Fonagy 2000).

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I modelli teorici individuano rispettivamente il core del disturbo in una mancanza di integrazione di componenti scisse dell’io, in una disregolazione emotiva o in una scarsa capacità di mentalizzazione. 

Gunderson sottolinea la robustezza teorica ed empirica di questi modelli, senza marcare una superiorità di uno sull’altro o ipotizzare una linea di integrazione degli stessi. Conclude con un commento personale: “A mio avviso, l’aspetto nucleare del Disturbo Borderline di Personalità sta nella “iper-sensibilità interpersonale”, ovvero nella  tendenza a interpretare i comportamenti come atteggiamenti di rifiuto e allontanamento e a reagire in maniera eccessiva alle risposte dell’altro”.

E’ interessante notare come il core evidenziato da Gunderson, che richiama il criterio nucleare proposto nel DSM-5,  ponga un certo accento sull’interpretazione cognitiva pervasiva e disadattiva del paziente e sulla sua conseguente risposta emotiva “eccessiva”.

3- Il decorso clinico del Disturbo Borderline di Personalità. Il terzo spazio si apre con la presentazione del Collaborative Longitudinal Personality Disorder Study (Gunderson 2011) dal quale si evidenzia come il Disturbo Borderline di Personalità vada incontro ad un significativo tasso di remissione sintomatica, pari al 45% dopo 2 anni dalla diagnosi e dell’85% dopo 10, con un tasso di ricadute del 15%. Nonostante gli esiti clinici favorevoli, però, i pazienti continuavano a presentare un funzionamento sociale scarso.Dallo studio si evidenzia inoltre che, a prescindere dal trattamento che il Disturbo Borderline di Personalità riceveva, si andava comunque incontro ad un miglior esito nel corso del tempo. La prognosi relativamente favorevole sostenuta dallo studio ha radicalmente cambiato, nella comunità clinica e scientifica, la visione di una condizione “cronica”, dunque stabile nel tempo e difficilmente trattabile.

Marsha Linehan. - Immagine: © University of Washington http://faculty.washington.edu/linehan/
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La raccomandazione con la quale Gunderson conclude la sessione dedicata al decorso è rivolta dunque ai clinici, spesso sfiduciati nei confronti di questi pazienti. “Di fronte ad un paziente che non migliora nel corso dei primi mesi del trattamento chiedetegli qual è la sua percezione dell’andamento della terapia e quali possono essere le difficoltà dovute allo scarso miglioramento e soprattutto interrogatevi sulla vostra motivazione a lavorare con quel paziente e sulle aspettative che avete su di lui… Non esistono pazienti intrattabili, esistono però quelli che noi non riusciamo a trattare”.

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4- Il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità. In ultimo Gunderson ha fatto un’overview sui modelli di trattamento evidence-based per il Disturbo Borderline di Personalità. Le tecniche, manualizzate e studiate in RCT, come la DBT (Linehan 1993), l’ MBT (Bateman 2004) e la TFP (Clarkin 1999) si sono dimostrate generalmente efficaci nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità. E’ però vero che, ad oggi, esiste una sostanziale sovrapponibilità dei modelli e l’assenza quindi di una superiorità di uno sull’altro (Gabbard 2004).

La comunità scientifica si sta muovendo da qualche anno verso il tentativo di individuare quali potrebbero essere gli aspetti che accomunano questi modelli e che rappresenterebbero dunque gli elementi chiave nel determinare l’efficacia nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità.  Sembra ormai esserci un certo accordo, condiviso anche dalle linee guida inglesi del National Institute for Clinical Excellence (NICE 2009), sull’assunto che il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità debba essere costituito da (1) alta strutturazione degli interventi erogati dall’équipe che prende in carico il paziente (2), coerenza degli approcci teorici adottati dai professionisti (3), supervisioni regolari dell’équipe (4), contratto terapeutico per la definizione di regole e obiettivi condivisi (5), atteggiamento empatico e supportivo, ma attivo e orientato al problem solving. 

Il Prof. Gunderson ci presenta brevemente il suo modello di lavoro al McLean Hospital che segue i punti sopra elencati e le indicazioni delle linee guida americane (APA 2001). “Il General Psychiatic Management (GPM) è costituito da diversi interventi, generalmente di matrice psicoeducativa e psicodinamica, erogati da professionisti con esperienza sul disturbo, ma senza un orientamento tecnico specifico. Il GPM si articola in: interventi psichiatrici e farmacologici, psicoterapie individuali e gruppali, case management infermieristico, gruppi psicoeducativi sui familiari, altri interventi tagliati ad hoc per il paziente.

Gunderson rimarca dunque gli elementi comuni che sembrano avere una generale efficacia nel lavoro su questi pazienti, ma non fa accenno a quelli che potrebbero essere i fattori che mediano tra una tale organizzazione “strutturata, coerente e supportiva” e l’outcome positivo sul paziente. Lo stato dell’arte sembra aver dunque individuato abbastanza chiaramente la “struttura” che un buon trattamento debba avere, ma ancora poche informazioni ci vengono date sugli elementi chiave che potrebbero avere un impatto diretto sull’efficacia. 

Il collegamento si chiude con la domanda della coordinatrice “Cosa ti ha fatto scegliere di lavorare con questi pazienti e cosa ti restituisce questa esperienza di lavoro?

Bhè devo ammettere che non è stata una mia scelta! Dopo le prime esperienze ho iniziato ad essere “famoso” nel campo e quindi hanno iniziato a contattarmi e riferirsi a me come “esperto” nel settore, ancor prima che io avessi potuto scegliere con “certezza” se lavorare con il Disturbo Borderline di Personalità. Mi sono appassionato via via a questi pazienti, che continuano a restituirmi giornalmente gratificazioni a livello professionale e personale. In generale, credo che lavorare con i Borderline ti tenga continuamente “attivo” per il grado di iper-coinvolgimento che portano con loro… è un’altalena tra il tentativo cauto di avvicinamento e quello più affannoso di “difendersi” dall’inondazione delle loro richieste alle quali è necessario porre dei limiti. Credo che quando  impari a trattare un Borderline hai le armi per poter trattare chiunque”.

Salutiamo e ringraziamo il Prof. J. Gunderson con un lungo e caloroso applauso finale. 

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Francesca Martino

PSICOTERAPEUTA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE Codidatta Studi Cognitivi Milano

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