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Gunther Von Hagens’ Body Worlds: alcune riflessioni.

Body Worlds: Giocare con la morte fa sentire potenti, e ci consente di maneggiare qualcosa che in realtà sconfigge tutti e in ogni caso.

Di Simona Meroni

Pubblicato il 14 Nov. 2012

 

Gunther Von Hagens’ Body Worlds, alcune riflessioni. - Immagine: © Gunther Von Hagens’ Body Worlds

Giocare con la morte (o con i suoi aspetti figurati), fa sentire potenti, e ci consente di maneggiare qualcosa che in realtà sconfigge tutti e in ogni caso.

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Gunther Von Hagens’ Body Worlds – il vero mondo del corpo umano dal 3 Ottobre 2012 è approdato alla Fabbrica del Vapore di Milano.

Con più di 34 milioni di visitatori, di cui 11 milioni solo in Europa, i Korpsewelten (in inglese Body Worlds) del padre della plastinazione fanno capolino in un’altra tappa italiana, dopo quella record delle Officine Farneto a Roma lo scorso febbraio.

In cosa consiste, effettivamente questa mostra tanto visitata quanto controversa?

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Nel 1977, Von Hagens mise a punto, all’Università di Heidelberg, un procedimento innovativo, in grado di conservare perfettamente tessuti e organi, sostituendo ai liquidi corporei dei polimeri di silicone che rendono gli elementi organici rigidi, inodore e ne mantengono vividi i colori.

Un po’ come se, detto in parole povere, la formaldeide in cui all’epoca erano immersi i resti del corpo umano, venisse iniettata all’interno, consentendo così ai tessuti e alle parti del corpo di conservarsi senza l’utilizzo di barattoli.

Al di là del procedimento medico, sicuramente interessante ma che esula dalle competenze e dall’argomento dell’articolo, vale la pena soffermarsi a riflettere su un dato: dal 1982 l’Institute for Plastination cura il programma di donazione dei corpi, utilizzati per la realizzazione della mostra, e al momento conta oltre 13 mila donatori registrati. Un link all’Istituto e al modulo necessario per lasciare il proprio corpo nelle mani del team diretto da Von Hagens è reperibile direttamente sul sito italiano della mostra.

Un altro aspetto, altrettanto interessante, è lo spartiacque che l’invenzione dell’anatomopatologo ha creato all’interno del mondo scientifico: Von Hagens, infatti, ha sdoganato l’anatomia tradizionale, aprendola al grande pubblico (come dimostra l’elevato numero di visitatori, che l’ha resa l’esibizione scientifica più visitata al mondo).

Lo scopo della plastinazione – sostiene il medico – “E’ stato fin dal principio scientifico, ossia la formazione di studenti di medicina”, ma i suoi preparati sono usciti dalle aule di anatomopatologia per entrare nelle sale dei musei, in quelle cinematografiche (una scena di 007 Casinò Royale è stata girata all’interno della mostra) e persino in case private: i plastinati, infatti, sono venduti – a quanto pare – a cifre anche piuttosto sostenute.

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La mostra Body Worlds, oltre a fornire un punto di vista preciso, puntuale e realistico (per ovvie ragioni) del nostro corpo “sottopelle”, consente anche di riflettere sulla morte e su come l’essere umano da sempre, in realtà, cerchi di contrastarla e di conservare in qualche modo non solo il ricordo, ma anche il corpo del defunto.

Molteplici tecniche di conservazione delle salme, infatti, si sono succedute nel mondo e in periodi storici differenti. In Australia, Nuova Guinea, Oceania e Africa i corpi erano esposti al sole ed essiccati. In Melanesia e Polinesia si usava esporre il cadavere in zone di marea per provocarne una mineralizzazione attraverso il sale. Presso i cinesi vi era l’usanza di riempire con il miele le cavità delle salme, mentre i colombiani usavano una resina vegetale specifica. La mummificazione – molto diffusa anche nell’America andina – raggiunse il massimo livello di perfezionamento presso gli antichi egizi.

Intervistato sulla ragione per cui così tante persone (si calcola una media di 5 donazioni al giorno) avrebbero donato il proprio corpo alla fondazione Von Hagens, per diventare delle “opere d’arte”, lo scienziato risponde così: «Per molti la plastinazione è il modo per secolarizzare la propria sepoltura e attenuare l’angoscia di perdere la vita, attraverso la possibilità di estendere la propria esistenza fisica dopo la morte».

Secondo i dati presentati, il 22% donerebbe il proprio corpo per la pubblica utilità; il 19% per il fascino della tecnica da lui messa a punto; il 13% per il desiderio di non essere né cremati né interrati. Lo stesso anatomopatologo ha dichiarato di voler fare del proprio corpo l’ultima sua opera, una volta che il Parkinson, malattia della quale soffre, avrà fatto il suo corso.

Von Hagens non è l’unico, certamente, a rendere in qualche modo la morte un’opera d’arte.

Anche l’artista Damien Hirst sembra aver scelto l’antitesti della vita come nucleo centrare delle sue esibizioni, che includono – tra gli altri – teschi umani coperti di diamanti.

 Un’altra mostra che ha raccolto numerosi visitatori a Chicago è “Morbid Curiosity”, allestita da Richard Harris, che ha collezionato più di 500 oggetti provenienti da tutto il mondo riguardanti l’iconografia della morte, compresi tavoli a forma di teschio, candelabri fatti di ossa. Il collezionista sembra mosso dall’idea di riavvicinare l’uomo moderno al concetto di morte, umanizzandola, e rendendola in qualche modo meno spaventosa se vissuta negli oggetti utilizzati quotidianamente.

Una teoria in qualche modo avvallata anche dalla psicologa americana Carolyn Kaufman, che si interroga sulla grande passione che la gente comune sembra avere per Halloween e i suoi personaggi, a cui – in qualche modo – si potrebbero avvicinare i plastinati di Von Hagens.

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La dottoressa sostiene che Halloween (esattamente come film e libri horror) consenta un “confronto sicuro” con le nostre paure esistenziali più profonde (quelle riguardanti la morte, per l’appunto, ma anche i nostri “lati oscuri” o aggressività che dir si voglia), senza metterci o farci sentire in pericolo.

Giocare con la morte (o con i suoi aspetti figurati), fa sentire potenti, e ci consente di maneggiare qualcosa che in realtà sconfigge tutti e in ogni caso.

Un altro meccanismo psicologico aiuta a comprendere come mai ciò che è terrifico o spaventoso a volte diviene una vera e propria passione. La così detta formazione reattiva consente di ribaltare un sentimento negativo (la paura) nel suo contrario positivo (la gioia). Tale meccanismo di difesa ci aiuta a fare i conti con ciò che non siamo in grado di affrontare perché, appunto, ci mette in difficoltà. Allontanando le emozioni negative trasformandole nel loro contrario, siamo in grado di maneggiarle e in qualche modo affrontarle.

Body Worlds, però, aggiunge un tassello: dal 1995 (anno della prima esposizione in Giappone) infrange il tabù del corpo funebre, di ciò che resta dopo la morte, conservandolo ma al contempo mettendolo a disposizione di tutti.

Qualcuno potrebbe pensare ad un lavoro macabro o morboso, ma la mostra – in realtà – sembra  rendere tridimensionali gli studi di Leonardo Da Vinci sul corpo umano (a cui, per altro, si ispira liberamente uno dei soggetti della mostra: Cavallo impennato con cavaliere).

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Le creazioni di Von Hagens sembrano inserirsi nel discorso moderno del “mettere in mostra” qualcosa che sino ad una decina di anni fa era rigorosamente appannaggio di ambienti o settori specifici. Ha quindi il pregio di aver aperto le porte dell’anatomia all’uomo di strada.

Sulla linea della divulgazione, sembra anche prestare il fianco ad una società in cui ormai l’informazione – se si vuole e la si ricerca – è reperibile ovunque e approfondita “sino all’osso” (per rimanere in tema).

E ancora, come sostengono Vincenzo Esposito e Simona Chiappero, del Dipartimento di Medicina Pubblica, Clinica e Preventiva della Seconda Università degli Studi di Napoli  – i Körperwelten (Body Worlds) sembrano essere uno dei tanti tentativi di narrazione performativa del corpo – e delle sue esperienze – da parte dell’immaginario collettivo.

La società moderna, definita da S. Bauman “liquida” (proprio perché non più incanalata, contenuta e gestita da grandi istituzioni quali la Famiglia, lo Stato e la Chiesa) registra un aumento dell’alterazione dell’immagine corporea, sia a livello di vissuti patologici (anoressia, bulimia ad esempio) o di espressione di vissuti agiti tramite e sul corpo (piercing, tatuaggi, body modification).

Credo anche si possa associare la mostra al discorso di una società in cui i limiti vengono sempre spostati “al di là”: che siano limiti fisici o psicologici, la mostra consente di vedere ciò che in realtà per tutta una vita rimane nascosto. Si ha la possibilità quasi di toccare con mano il proprio spazio fisico interiore, sia sano che malato. Si ha la possibilità  di dare un nome e un’immagine a ciò che in realtà sono solo fantasmi o parole difficili da comprendere, ma che in qualche modo condizionano la nostra vita (le diagnosi). Forse non è un caso che Il 63% dei visitatori ha indicato che l’autenticità dei preparati esposti ha esercitato un influsso sostanziale sulla loro acquisizione di cognizioni che prima risultavano poco comprensibili.

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Sempre per rimanere in tema di dati, vale la pena riportare ciò che sostiene Von Hagens: “La mostra è un mezzo per divulgare al grande pubblico la complessità del corpo umano, educando sui temi della salute. Il successo è dimostrato dal fatto che, alla fine della visita delle mie esposizioni, il 68% dei visitatori intervistati ha ammesso di aver deciso di prestare maggiore attenzione alla propria salute, il 10% smette di fumare e il 30% diventa donatore di organi”.

Possiamo sicuramente pensare che il plastinato attivi il riconoscimento di noi stessi, del nostro funzionamento e della complessità del corpo umano; un riconoscimento e un rispecchiamento maggiore di quello attivato dall’illustrazione di polmoni malati di cancro sui pacchetti di sigarette.

In conclusione, credo che l’esibizione possa essere letta da angolature differenti: c’è chi potrebbe etichettarla come una macabra spettacolarizzazione del corpo umano, chi una trovata economica che ha trasformato un esperimento medico in arte, chi ancora una mostra- manifesto del nostro tempo, attaccato visceralmente all’immagine, al corpo e al suo voyeurismo.

Indipendentemente dagli occhiali che si usano per visitarla, o dalla lettura che una volta conclusa la mostra se ne darà, penso valga la pena visitarla, per dare uno sguardo più da vicino a ciò che siamo e a ciò che, in fondo, in qualche modo ci determina.

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