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Schema Therapy: Intervista ad Alessandro Carmelita

La Schema Therapy : Intervista a Alessandro Carmelita.

Di Irene Giardini

Pubblicato il 03 Ott. 2012

Aggiornato il 11 Mar. 2013 16:14

 

Schema Therapy: Intervista a Alessandro Carmelita
Alessandro Carmelita, Presidente dell’Associazione Italiana Schema Therapy

La Schema Therapy : Intervista a Alessandro Carmelita.

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Da qualche mese ho finito di frequentare il training internazionale di Schema Therapy, sede di Modena, organizzato dalla S.I.S.T (Società Italiana per la Schema Therapy). La Schema Therapy, fondata da Jeffrey Young, è una terapia che integra gli aspetti più significativi della Terapia Cognitivo Comportamentale, della Teoria dell’Attaccamento, della Terapia Psicoanalitica, della Terapia della Gestalt, della terapia Focalizzata sulle Emozioni, e che utilizza un armamentario di strategie e tecniche molto vasto, che permettono un lavoro psicologico in “profondità”. Durante il training ho avuto la possibilità di confrontarmi e di conoscere alcuni terapeuti Schema Therapy: Gunilla Fosse, Neele Reiss e Alessandro Carmelita, con cui ho anche avuto la possibilità di fare due chiacchiere sulla Schema Therapy.

 

Quale pensa sia il contributo centrale e il valore aggiunto della Schema Therapy?

 

La Schema Therapy mantiene una cornice focalizzata sul raggiungimento degli obiettivi terapeutici e degli obiettivi del paziente che deriva dalla terapia cognitivo comportamentale. Gli obiettivi quindi sono legati alla vita attuale del paziente, ma allo stesso tempo con la Schema Therapy si ridà importanza alla “cause originarie” dei problemi, tralasciate invece da Beck, e ci si focalizza su di esse con un lavoro a livello immaginativo.

Possiamo definire questo come un lavoro principalmente emotivo perché attraverso gli esercizi esperienziali, esercizi immaginativi di roleplaying, si tende a far emergere in seduta emozioni molto forti e si rende possibile il lavoro sui ricordi di eventi traumatici.Eventi che si pensa siano stati l’origine delle problematiche psicologiche del paziente. Si lavora, quindi, sui ricordi per cambiare le emozioni ad essi collegate.

Altro aspetto fondamentale della Schema Therapy è la grande importanza data alla Relazione Terapeutica e alle dinamiche interpersonali che si manifestano in seduta. Quello che percepisco lavorando da molti anni con la Schema Therapy è che essa permette al terapeuta di avere una visione molto completa della sofferenza umana e una visione “rotonda” della persona che si ha davanti.

Ciò fa sì che il lavoro con il paziente sia su più livelli: il livello emotivo in primis e poi quelli cognitivo e comportamentale.

 

Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma. - Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma (#1 Assessment)

Rispetto alla sua esperienza clinica, per quali pazienti trova sia più utile la Schema Therapy?

 

Io devo dire questo, sono andato a New York per specializzarmi con Jeffrey Young perché mi sono reso conto di avere alcune difficoltà con certi pazienti. Mi è capitato negli anni di perdere qualche paziente non capendo il perché. Inoltre, avevo la sensazione di non fare un lavoro completo, che mancasse qualcosa; infatti, con alcuni pazienti, pur facendo un buon lavoro,mi capitava che dopo qualche tempo mi richiamassero per dirmi che qualcosa nella loro vita non stava andando bene.

Per questo ho deciso di approfondire gli studi su altre forme di terapia che non si discostassero troppo dalla mia formazione cognitiva. Inoltre, ho approfondito la conoscenza dei disturbi di personalità, perché avevo la sensazione che il sintomo che molti pazienti portavano in terapia, che poteva essere riconosciuto come espressione di un disturbo di Asse I, fosse solo la superficie, che stesse “sopra”, celando un disturbo di personalità.

Questa è stata la mia motivazione iniziale per approfondire la Schema Therapy che dai miei studi ritenevo fosse maggiormente indicata per questo tipo di pazienti. Ovvero per i disturbi di personalità.

Dato che viene supportato dalla ricerca, ad esempio il famoso studio di Arntz che dimostra che la Schema Therapy è estremamente efficace per il disturbo Borderline e anche gli attuali studi su i Disturbi di Cluster C che stanno dando ottimi risultati.

Quando, poi, ho visto Jeffrey Young lavorare a New York sono rimasto veramente colpito dal suo modo di relazionarsi ai pazienti. Quello che ho potuto verificare fin da subito, specializzandomi in Schema Therapy con lui, è che cambia la forma mentis del terapeuta. Si è molto più focalizzati sulla persona, che sul paziente; su quelli che sono i bisogni emotivi della persona davanti a noi, che non solo non sono stati soddisfatti nella sua vita passata ma che non o sono ancora oggi.

Quello che molto presto ho verificato e compreso è che la Schema Therapy può essere applicata in altri ambiti oltre a quello dei disturbi di personalità.Per esempio si è dimostrata clinicamente efficace nel trattamento di disturbi d’ansia, della depressione, soprattutto nel prevenire le recidive, ed inoltre è molte utile nelle terapie di coppia, dove permette ai partner di vedere e prendersi cura della parte vulnerabile dell’altro, invece che continuare a rimanere bloccati in un conflitto perenne l’uno contro l’altro. La cosa interessante è che la Schema Therapy sta dimostrando di essere molto efficace anche applicata in gruppo.

Tale approccio risulta anche più vantaggioso in termini di costi e tempi ridotti. Tuttavia, quello che Young consiglia è che se c’è un disturbo di Asse I, come terapeuti siamo tenuti a fare con quel paziente la terapia che si è dimostrata scientificamente più efficace. Quindi, in prima istanza, potremmo proporre un trattamento cognitivo comportamentale per trattare disturbo d’ansia, ma poi in un secondo momento, potremmo andare a vedere quali sono gli “schemi maladattivi” del paziente, quali “comportamenti di coping” sta mettendo in atto e fare un lavoro con lui attraverso la Schema Therapy affinchè questo riduca il tasso di eventuali ricadute e migliori la qualità di vita del paziente.

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 I pazienti come accolgono la proposta di lavorare in termini di mode e schemi, come accettano la proposta di fare esercizi immaginativi, ha mai trovato delle resistenze?

 

Sono un terapeuta con una formazione Cognitivo Comportamentale e Sandra Sassaroli è stata la mia didatta per il primo anno di specializzazione. Quindi, io sono conosciuto come terapeuta cognitivo comportamentale.

Quello che succede quindi è che molti pazienti mi chiamano per questo tipo di terapia: una terapia centrata sul sintomo, aspettandosi di “guarire” in un breve tempo. Questo è quello che loro leggono su internet. “La Terapia cognitiva è una terapia breve centrata sul sintomo”.

Quello che spesso accade, però, è che nel momento in cui vengono in terapia la maggior parte di questi abbia dei tratti di disturbo di personalità. Quindi quando loro vengono in terapia con l’aspettativa di lavorare sul presente e io propongo loro di lavorare sulla loro storia, di andare a vedere da dove arrivano le loro problematiche, ci può essere, in effetti, in alcuni di loro un po’ di resistenza. Per questo la prima parte della terapia è anche una parte psico-educativa. Ovvero spieghiamo i motivi per cui è importante lavorare sui ricordi passati e sulla storia di vita. Quello che facciamo è approfondire la storia di vita del paziente per parecchie sedute cercando di fare una sorta di “educazione costante” a quello che sono gli schemi, a cosa significa il fatto che se uno schema si attiva nel presente una persona continua a mettere in atto determinati comportamenti di coping appresi nel passato e a ciò che ne consegue.

Quindi, c’è tutto un lavoro di preparazione a quella che sarà la proposta che noi faremo al paziente: una terapia in cui lavoreremo molto collegando i problemi attuali del paziente a quelle che sono state nel passato le cause; partendo da emozioni molto negative che il paziente prova nel presente per far emergere dei ricordi di situazioni vissute nel passato in cui lui ha provato emozioni simili.

Questo aiuta a fare comprendere al paziente quanto sia importante un lavoro di connessione tra le sue esperienze passate e le problematiche attuali, recuperandone i vissuti dalla memoria. Una cosa che capita spesso è che un paziente mi dica: “Alessandro io sono venuto da te perché volevo stare meglio e invece finite le sedute mi capita di stare ancora peggio” e questo è qualcosa che noi terapeuti dobbiamo comprendere e validare. Quello che facciamo è comprendere il malessere del paziente, mostrare genuinamente il nostro dispiacere per la sua sofferenza facendo però anche comprendere che è necessario far emergere ciò che fa soffrire per poi cambiare quella sofferenza.

Durante la formazione impariamo d condurre degli esercizi immaginativi e di role play in cui il ricordo e il vissuto emotivo dell’altro possa cambiare gradualmente. Si impara a lavorare sui vissuti emotivi negativi e a cambiarli facendo in modo che il paziente possa lasciare le sedute non stando eccessivamente male ma avendo elaborato i suoi stessi vissuti emotivi. Certo mettiamo anche il paziente al corrente di quali potrebbero essere le conseguenze del non fare un lavoro più approfondito sul suo problema attuale. Una sorta di costi e benefici del lavorare sul ricordo del passato.

 

Workshop Schema Therapy per il Disturbo Narcisistico di Personalità - Relatrice: Wendy Behary (FOTO)
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Per concludere, le chiedo di parlarci, della fase conclusiva della terapia, come lasciare andare via un paziente?

 

Se noi pensiamo ai pazienti come a dei bambini, come suggerisce Jeffrey Young, quello che noi vediamo nell’arco della terapia è che all’inizio sono come dei bambini molto piccoli mentre man mano durante il percorso terapeutico è come se loro maturassero sempre di più. Quindi quello che notiamo è che è come se il paziente crescesse. Nella fase finale della terapia noi solitamente vediamo, nel migliore dei casi, che il paziente ha interiorizzato un “Adulto sano”. Questo lo vediamo sia per come si relaziona con noi, ma anche per come vive la sua vita, le sue relazioni al di fuori della seduta. Il paziente alla fine della terapia risulta essere un adulto più sano, maggiormente in grado di stare in contatto con le proprie emozioni e con i propri bisogni, maggiormente in contatto con quella parte bambina che c’è in lui, e che è in grado di provare amore e compassione per quella parte, prendendosene, finalmente, cura.

Noi terapeuti dobbiamo facilitare il distacco del nostro paziente quando vediamo che riesce a farcela da solo. Diraderemo le sedute, ricordandogli sempre che rimarremo una base sicura e stabile per lui.

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