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Giornata Mondiale della Salute Mentale – 10 Ottobre 2012

Giornata mondiale della salute mentale, un concetto che è sempre stato definito per differenza. La persona “sana” è quella “non malata”.

Di Chiara Manfredi

Pubblicato il 10 Ott. 2012

Ogni epidemia è un prodotto
del suo tempo (M. Bounan)

 

LA PAZZIA, QUESTA SCONOSCIUTA.

State of MInd - Il Giornale delle Scienze PsicologicheOggi 10 ottobre si celebra la giornata mondiale della salute mentale, un concetto che è sempre stato definito per differenza. La persona “sana” è quella “non malata”.

La salute mentale, la così tanto agognata “normalità” è fondamentalmente l’assenza di patologia. Ma allora, che cos’è questa cosa di cui oggi festeggiamo l’assenza? Che cos’è la pazzia?

Nel corso dei secoli sono state date diverse interpretazioni all’evidenza della malattia mentale, della “follia”; citando due esempi, l’interpretazione illuminista, rappresentata da Diderot, attribuisce la follia al corpo; al contrario, la tradizione romantica, attraverso le parole di Schelling, afferma: «L’essenza più profonda dello spirito umano, […] se esso viene considerato nella separazione dall’anima, quindi da Dio, è la follia. La base della ragione stessa è dunque la follia. Quindi la follia è un elemento necessario, che però non dovrebbe manifestarsi […]. Ciò che chiamiamo ragione […] è propriamente null’altro che follia regolata». [1]

Arrivando a secoli più vicini al nostro, negli anni 20 del ‘900 si assiste all’opposizione surrealista alla psichiatria tradizionale. Appoggiandosi alle scoperte freudiane, Breton e colleghi cercano di esplorare il mondo dell’inconscio e del sogno e si interessano a stati, quali l’automatismo psichico, la follia e l’ipnosi, per descriverne i dati. Propugnando la libertà (sociale e individuale), questi autori sostituiscono la ricerca sperimentale scientifica con la filosofia e la psicologia ed esaltano la figura del “folle”, considerato come persona in grado di vedere ed interpretare i fatti del mondo in una chiave particolare, scevra dai limiti e dai confini imposti dalle leggi della società borghese, e quindi più vera e più reale. [2]

Gli anni ’30 vedono l’introduzione di pratiche mediche controverse utilizzate per curare la malattia mentale, inclusa l’induzione di coma tramite elettrochoc, insulinoterapia o altri farmaci, l’asportazione di parti del cervello (leucotomia o lobotomia). Oltre agli evidenti problemi etici, si nota subito quanto la patologia psichica fosse assimilata a quella fisica, arrivando a “curare” la prima con metodi che incidono sulla seconda.

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Negli anni ’50 si sviluppano i primi farmaci, in particolare l’antipsicotico clorpromazina, e lentamente il loro uso soppianta le precedenti “terapie”. Contemporaneamente, oltre al problema degli effetti collaterali, aumenta l’opposizione all’uso degli ospedali psichiatrici e si fanno strada tentativi di riportare le persone alla comunità attraverso gruppi collaborativi autogestiti.

Nel periodo contemporaneo, si dibatte ancora su una contrapposizione di idee e teorie che ha avuto origine in un movimento nato negli anni 60: l’Antipsichiatria.

Rappresentata in America da Goffman e Szasz e in Italia da Basaglia, questo indirizzo si basa sul presupposto secondo cui nella maggioranza dei casi le sofferenze psichiche sono il risultato non di malattie o disfunzioni, ma di condizionamenti ambientali o di contraddizioni sociali. Alla base c’è la premessa teorica del carattere esclusivamente sociogenetico delle malattie psichiche, quindi il conseguente rifiuto di tutte le teorie e terapie dettate dalla psichiatria classica (in particolare dall’indirizzo medico – biologico). Questa è infatti tacciata di riduzionismo, pertanto viene richiesto un mutamento radicale nell’approccio al problema dei disturbi mentali, per esempio con l’applicazione di categorie sociologiche nella diagnosi degli stessi. Inoltre la psichiatria tradizionale viene accusata di concentrare la propria attenzione sulla malattia individuale e sulle sue basi biologiche, trascurando l’origine sociale dei disturbi psichici.

In Italia, in particolare, figure di assoluta importanza per quanto riguarda questo filone teorico sono Basaglia e Jervis (anche se quest’ultimo non volle mai essere incluso esplicitamente in questa corrente). Entrambi concentrarono le loro forze nel tentativo di combattere e sradicare la visione psichiatrica tradizionale della malattia mentale, riproponendo il problema su un piano sociologico: “La follia – afferma lo stesso Jervis – è anzitutto un giudizio di devianza; in pratica è il nome che si dà a certe violazioni del vivere sociale”. [3] La diagnosi psichica non avrebbe un valore scientifico, ma dipenderebbe da categorie socioculturali ed avrebbe l’unica conseguenza di etichettare le persone in base a due grandi classificazioni: il “normale” ed il “patologico”. Lo stesso autore si spinge poi oltre, ipotizzando un’origine del disagio psichico nell’oppressione che da sempre la società perpetua sull’uomo, a cominciare dalla “famiglia nucleare”, per poi proseguire nella scuola e nella fabbrica.

L’altro esponente italiano di questo attacco alla tradizione psichiatrica è Franco Basaglia; partendo dalla sua esperienza personale all’interno di manicomi negli anni ’60 (al tempo caratterizzati dalla massima detenzione, dalla camicia di forza e dall’elettroshock), egli sosteneva che «Un malato di mente entra nel manicomio come “persona” per diventare una “cosa”. Il malato, prima di tutto, è una “persona” […]. Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone».

La rivoluzione concreta attuata applicando le idee basagliane si ebbe per la prima volta a Gorizia, dove il manicomio diventò una “comunità terapeutica”, con cancelli aperti e una nuova concezione di follia. Scrive Basaglia: «La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla». [4]

Tutto ciò si concretizza con la legge del 13 maggio1978 (legge 180) presentata e proposta dallo stesso Basaglia. [5] In questa riforma, lo psichiatra sottolinea la necessità di «rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso, per quanto possibile, il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura». Questa legge, che confluirà poi quasi per intero nella legge n° 833 del 23 dicembre 1978 con cui verrà istituito il Servizio Sanitario Nazionale, porta al graduale superamento degli ospedali psichiatrici e neuropsichiatrici ed alla loro trasformazione in strutture diverse, non più coercitive e segregative, ma di aiuto e di appoggio per il malato, quasi come delle strutture che lo accompagnino nel passaggio dalla malattia al reinserimento nel mondo sociale. Sono infatti previsti “Servizi di diagnosi e cura”, ma anche “appartamenti protetti” ed altre strutture d’appoggio per ex degenti manicomiali o per nuovi utenti dei servizi psichiatrici.

Osteggiata in mille modi e mai finanziata, la legge 180 viene applicata solo in alcune zone d’Italia ed ha una grave dimenticanza: non tratta minimamente la situazione dei vecchi “manicomi criminali” (oggi Ospedali Psichiatrici Giudiziari – Opg – , 6 in Italia), lasciandoli sostanzialmente immutati.

La corrente denominata Antipsichiatria, quindi, rappresenta una svolta epocale per il trattamento dei malati pschichici e per i presupposti che proponeva: da una concezione di custodia e controllo, in cui i “folli” venivano rinchiusi in quanto pericolosi, incurabili e nocivi per la società, si passò ad una nuova concezione clinica e terapeutica, tipica del sistema sanitario.

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In questi stessi anni si ebbero dei movimenti popolari contro alcuni criteri psichiatrici: il movimento degli omosessuali si oppose alla classificazione dell’omosessualità come malattia mentale, e in un clima di acceso dibattito nel 1973/1974 l’ American Psychiatric Association (APA) decise con una piccola maggioranza (58%) di rimuoverla dalle categorie nosografiche; ciononostante l’omosessualità egodistonica rimase fino al 1987.

Contemporaneamente alla nascita e al crescente uso di psicofarmaci, nacquero polemiche e correnti che criticavano la psichiatria per la sua eccessiva focalizzazione sull’indagine biochimica circa la malattia mentale. I critici affermarono infatti che le assunzioni biochimiche della psichiatria maggioritaria non erano supportate da prove ed erano solo giudizi parziali. Questo intervento massiccio sul paziente con psicofarmaci era interpretato come un tentativo di sedarlo e di drogarlo, al fine di renderlo il meno pericoloso possibile ed il più possibile standardizzato ed omologato alle persone cosiddette “normali”. Bounan, nel 1991 scrive: «Si drogano i depressi e i folli, li si rende presentabili. Almeno tacciono, e si può sempre distogliere gli occhi dal loro viso idiota». [6]

Ancora una volta, quindi, si perpetua la contrapposizione tra psichiatria e senso comune, tra cause biochimiche o genetiche e cause sociali, tra la cura isolata ed il reinserimento sociale.

Ancora una volta, il “pazzo” è definito dai “normali” per contrapposizione, per differenza, per il rispetto delle norme che gli stessi “normali” hanno costruito.

Ancora una volta si impone la classificazione degli “altri”, di quelli che non sentono voci o non vedono il mondo diversamente dalla maggioranza.

Ancora una volta si danno nomi, si etichettano cose e persone in tutta la sicurezza che questo comporta, ché noi siamo diversi, noi riusciamo a ragionare e a utilizzare la razionalità, noi non siamo come loro.

Ancora una volta tante persone tra i “non addetti ai lavori” sostengono che “alla fine tutte queste malattie mentali hanno una base scientifica, biologica… così ci nasci e non puoi guarire”, che per contro significa che chi non è “nato pazzo” non rischia di diventarlo, che è al sicuro.

Eccola qui la pazzia, che nella quotidianità significa emarginazione, derisione, giudizio degli altri. La paura che la follia provoca nei “normali” è incredibilmente placato dal definire dei limiti immutabili: quello dei “pazzi” è un gruppo con confini impermeabili (pazzi si nasce, non si diventa e dalla pazzia non si guarisce); la differenza di status all’interno della società tra questo gruppo e quello dei “normali” è stabile (i folli non potranno mai arrivare al potere) e legittima (non sarebbero in grado di governarsi da soli: è giusto che noi ci prendiamo cura di loro fissando delle leggi). Allora perché cambiare la situazione? Perché forse non è così. Perché dalla cosiddetta “pazzia” si può guarire (tranne qualche eccezione). Perché differenza non è sinonimo di patologia. Perché almeno si deve provare a reinserire il malato nella società, per fargli riacquisire le sue relazioni e le sue capacità comunicative.

Quanto questa visione immutabile della pazzia sia rassicurante lo si può notare anche nell’uso comune di questo concetto relativamente alla cronaca nera, che ogni giorno impressiona ed insieme appassiona tutti i cittadini. Quante volte ci si nasconde dietro a un “è sicuramente pazzo e malato” per spiegarsi la condotta di un pedofilo, di un assassino? Quante volte si cerca di catalogare le persone tra chi commette reati e chi “non lo farebbe mai”? Le persone partecipano copiose ed interessate alle varie cronache, un po’ per curiosità e un po’ perché pensano di stare osservando qualcosa di altro, di diverso da sé. Quando si legge della madre che ha ucciso il figlio, è più facile dire “è una bestia”, piuttosto che “subito dopo il parto anche io avrei ammazzato mio figlio per quanto piangeva”. Ci sono addirittura dei tabù, degli argomenti che non si possono mettere in discussione; primo fra tutti quello, appunto, che chi commette certi tipi di crimini deve avere per forza qualcosa che non va. Che sorpresa, poi, quando il reo viene giudicato “capace di intendere e di volere”: si affaccia l’ipotesi che una persona sana di mente abbia deciso serenamente dall’oggi al domani di compiere certi reati, e questo per la mentalità di tanta gente non è possibile. Scrivono Fornari e Ponti: «È solo un’illusione quella che accompagna la maggior parte delle persone nella vita: che cioè si possa stabilire una netta linea di demarcazione tra il giusto e l’ingiusto, tra il bene e il male, tra l’angelico e il diabolico, tra la normalità e la follia, tra il delinquente e chi le norme le rispetta, e così via». [7] Però è un’illusione che rassicura tantissimo e che ci mette al sicuro, una volta posizionataci da una determinata parte della linea, che per quel parametro non potremo cambiare mai.

Verso la psicopatologia si crea così una condizione di paura mista a curiosità per qualcosa che «proprio come il divino, affascina e insieme terrorizza per la sua totale diversità» (Mauro Covacich). L’uomo è attratto dal differente da sé, ma allo stesso tempo non può mostrare interesse per qualcosa di così “sbagliato”: «La gente si tira un po’ indietro come per mostrare che in realtà voleva solo rendersi utile, che non è interessata al male degli altri – sarebbe peccato – e che comunque non è giusto che succedano queste cose, bisognerebbe seguire di più le persone malate (c’è chi dice “controllare”, c’è chi dice anche “sorvegliare”) ». [8]

In fondo si può dire che la paura della pazzia (e lo stesso vale per la paura di impazzire) sia uno dei tanti timori dell’uomo nei confronti di qualcosa che non conosce, quasi come si nutre paura e insieme curiosità nei confronti dell’Aldilà. Per cercare di fronteggiare la dissonanza cognitiva tra questi due sentimenti e per cercare di spiegarsi l’origine del fenomeno, l’uomo crea teorie ingenue sulla pazzia, come del resto ha sempre fatto nel corso della storia, coerenti con i valori preponderanti del momento. Per questo il pazzo è stato visto, nei vari periodi storici, come incarnazione del demonio, stregone, pericolo per la società da rinchiudere, persona con disfunzioni cerebrali etc.

Per lo stesso motivo anche in un medesimo periodo, vi sono diverse interpretazioni della malattia mentale e di conseguenza del malato mentale: al giorno d’oggi si possono ritrovare diverse teorie di riferimento per altrettante tipologie di interventi terapeutici (paradigma biologico, paradigma psicoanalitico, paradigma dell’apprendimento, paradigma cognitivo, etc.).

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Quello che dovrebbe far riflettere è che l’uomo ha paura di impazzire anche per il tipo di vita che questo comporterebbe (l’emarginazione, l’etichettamento, i pregiudizi), quando è proprio lui che, giorno dopo giorno, perpetua questi atteggiamenti mentali nei confronti dei malati psichici. L’uomo rischia così di rimanere intrappolato in un una gabbia che lui stesso si è costruito o almeno ha contribuito a rafforzare presso la società in cui vive. Nessuno si fa problemi nel categorizzare le persone come “diverse”, senza però pensare mai di poter un giorno ricadere nei parametri che definiscono questa categoria. L’uomo ha paura che impazzendo potrebbe perdere i suoi diritti e la sua libertà, ma non si fa scrupoli a togliere questi diritti e questa libertà ad altre persone ritenute “pericolose” per la società.

Il cittadino si aspetta quindi che la legislazione che lo riguarda lo protegga dalle figure ritenute pericolose per se stesso e per gli altri. A questo proposito, l’Italia è rimasta oggi l’unica nazione in Europa dove alla diagnosi di vizio totale o parziale di mente dell’imputato, al momento in cui ha commesso il delitto, il reo rimanga ancora in ambito penale. In pratica, quando un malato psichiatrico commette un reato, le possibilità sulla sua sorte sono tre:

  • Se viene riconosciuto il vizio totale di mente (art. 88 CP) e se viene giudicato non socialmente pericoloso (artt. 203 – 133 CP), viene prosciolto e rimesso in libertà (artt. 529 – 530 CP)

  • Se viene riconosciuto il vizio totale di mente (art. 88 CP) e se viene giudicato socialmente pericoloso (artt. 203 – 133 CP), viene prosciolto ed internato in un OPG per 2, 5 o 10 anni (artt. 215 – 222 CP)

  • Se viene riconosciuto il vizio parziale di mente (art. 89 CP), viene condannato (ad una pena minore), ma prima di entrare in carcere (art.656 CP) trascorre un periodo di 1 – 3 anni in un OPG, per il trattamento della patologia di mente (artt. 215 – 219 CP).

Si pone però a questo punto una domanda: non essendo l’OPG una struttura terapeutica, ma solo custodialistica, per la maggior parte degli internati l’etichetta del socialmente pericoloso come potrebbe scomparire?

Inoltre vale la pena notare un dato statistico, che probabilmente allarmerebbe tutte le persone che si spiegano i reati più gravi e “mostruosi” come messi in opera da un malato mentale: statisticamente i malati mentali che commettono reati rappresentano, rispetto alla popolazione di tutti i malati mentali, la stessa percentuale di quelli che commettono reati e sono sani di mente, rispetto a tutta la popolazione dei sani di mente. Sono infatti pochissime le patologie psichiatriche a rischio di comportamenti aggressivi ed eterolesivi (possono esserlo soprattutto i paranoidei ed i “borderline”).

Sembra quindi di dover modificare la nozione originaria di “follia omicida” o di “pazzo criminale” verso una rappresentazione del malato mentale connotata meno negativamente.

La follia, la devianza, la psicopatologia è quindi qualcosa che ci appartiene. Come società e come singoli. Sta a noi decidere come gestirla quotidianamente, a prescindere dalla legislazione. Sta a noi decidere di accettare che la pazzia sia fondamentalmente sofferenza e che il sofferente sia uno di noi.

Per commettere un crimine
Ci vuole il suo coraggio
Ma per voltar la testa
Basta la debolezza
Sono tutti complici
E non te ne vorrebbero
Ti giustificherebbero, giustificando loro
(V. Capossela)

 

 

BIBLIOGRAFIA:

1) SCHELLING, F.W. (1974), Opere Filosofiche. Laterza, Bari.

2) BRETON, A. (1997), Manifesti del Surrealismo. Einaudi, Torino.

3) JERVIS, G. (1975), Manuale critico di psichiatria. Feltrinelli, Milano.

4) BASAGLIA, F. (1981), Scritti 1. Einaudi,

5) LEGGE 180. Gazzetta Ufficiale, 16 maggio 1978.

6) BOUNAN, M. (1991), Le temps du Sida. Allia, Paris.

7) PONTI, G., FORNARI,U. (1999), Il fascino del male. Raffaello Cortina, Milano.

8) COVACICH, M. (2007), Storia di pazzi e di normali. Laterza, Bari.

 

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SCRITTO DA
Chiara Manfredi
Chiara Manfredi

Teaching Instructor presso Sigmund Freud University Milano, Ricercatrice per Studi Cognitivi.

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