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Religione: Credenti e Non Credenti di fronte alla Guerra

La religione è una forza generatrice di pace? O piuttosto l’humus che alimenta ed alimenterà la guerra?

Di Paolo Azzone

Pubblicato il 20 Set. 2012

Aggiornato il 06 Mag. 2013 13:37

 

Religione- Credenti e Non Credenti di fronte alla Guerra. - Immagine: © vladischern - Fotolia.comComunità religiose ed individualismo programmatico: credenti e non credenti di fronte alla guerra. La religione è una forza generatrice di pace? O piuttosto l’humus che alimenta ed alimenterà le guerre?

Sono nato negli anni ’70. Durante la mia adolescenza la cultura laica ha acquisito quella prevalenza assoluta che caratterizza indubbiamente la modernità in Occidente.

Nell’infanzia ho imparato che il Vangelo di Cristo insegna la pace e l’amore.

Nella mia adolescenza mi sorprendevo perché il cristianesimo veniva persistentemente associato alla guerra, nelle opere degli intellettuali più creativi, così come negli interventi dei miei coetanei durante le assemblee degli studenti.

Certo la storia forniva alcuni esempi eclatanti: dalle crociate alle guerre di religione nell’Europa del ‘500, fino al conflitto arabo israeliano, gli schieramenti opposti erano frequentemente identificati anche da differenti appartenenze religiose.

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Percepivo, però, nella cultura che mi circondava, un’accusa implicita e assai più inquietante. Nella prospettiva della cultura laica l’esperienza religiosa non costituirebbe solamente un elemento di coesione e un vessillo identitario per i combattenti. La guerra troverebbe nutrimento proprio nello stato di emozionalità indifferenziata e di apertura percettiva che caratterizza l’uomo a contatto con il Sacro.

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Ricordo, a questo proposito, un tema proposto credo per un esame di maturità di quegli anni. Ai candidati si chiedeva di commentare il titolo di un’opera di Goya: “Il sonno della ragione genera mostri”. Come a dire, solo la freddezza, l’intelletto che misura e classifica, la concretezza del presente, affrancherebbero l’uomo dal suo radicale istintuale, dall’annebbiamento prodotto dagli impulsi e dalla rabbia. Solo la fredda ragione salverebbe l’uomo dalla guerra.

In questo breve intervento cercherò di rispondere dunque a questa domanda semplice e diretta: la religione è una forza generatrice di pace? O piuttosto l’humus che alimenta ed alimenterà le guerre?

La mia riflessione si baserà sulle mie esperienze, nella mia vita di uomo e di cristiano e nel mio lavoro di professionista a contatto con la malattia mentale, con l’uomo nella sofferenza e nella disperazione. Sotto questo profilo il mio riferimento è la teoria psicoanalitica introdotta da Sigmund Freud e continuamente arricchita e sviluppata fino ai giorni nostri.

Quando il sole della primavera torna ad illuminare i cieli Lombardi dopo il grigio inverno, amo salire lungo la ripida mulattiera che da Civate – presso Lecco – conduce ai 630 metri dell’abazia di san Pietro. L’ingresso è insolitamente rivolto ad Oriente. I monaci che abitavano questi luoghi nell’XI secolo sentirono il bisogno di ringraziare Dio per le gioie della sacra liturgia aprendo il cuore e lo sguardo verso i lago di Pusiano e di Annone e la sconfinata pianura che si apre ai piedi del Cornizzolo.

Invertirono perciò la direzione della chiesa. Oggi noi entriamo nel tempio attraversando le antiche absidiole. Sulla parete in alto la donna vestita di luna sfugge alle insidie del maligno, e più in basso, quattro colonne sostengono i 4 fiumi del giardino dell’Eden. Una spirale destrorsa le attraversa tutte e conduce il nostro sguardo verso il cielo.

Non tutte in verità, la quarta colonna ruota al contrario, in senso antiorario. Allontana da noi e scarica in un immaginario sottosuolo le minacce delle forze del male.

Anche la Cattolica di Stilo, gioiello di architettura greco – bizantina in Italia, ha volto il suo ingresso verso l’infinito, la fiumara, la pianura, il mare. E anche qui ho scoperto una colonna anomala. Un secondo capitello, rivolto verso il pavimento, la distingue dalla altre e si sforza di proteggere l’amore ed il sacro dalla violenza e dal male.

Il male, ecco il male. Vorrei oggi parlarvi della realtà del male. Il cristianesimo è iscritto nella storia di questa collettività italiana. I suoi precetti sono filtrati così profondamente nelle nostre aspettative che a volte fatichiamo a riconoscerli. Non-violenza e amicizia tra i popoli sono forse la componente del messaggio cristiano più universalmente condivisa in Europa occidentale.

Non così la consapevolezza del male. La realtà del male, la minaccia che ha insidiato Cristo, la Chiesa, noi singoli credenti, di fatto tutti gli umani, è oggi rimossa, dimenticata. Vorrei oggi parlarvene perché è qui, temo, che la guerra trova le sue ragioni ed il suo nutrimento.

Il potere politico sociale ed economico usa ed alimenta la guerra, non c’è dubbio. Ma evidentemente non è in grado di crearla. Comportamenti aggressivi organizzati e sistematici nei confronti di altri gruppi sono già osservabili nei primati. Lo studio paleoantropologico delle comunità mesolitiche ha riscontrato ampie tracce di massacri violenti e sistematici. L’antropologia culturale ha incontrato la guerra dovunque.

Sigmund Freud era del tutto convinto che alla radice della guerra vi fosse una precisa base istintuale. Con Al di là del principio di piacere (1920) il padre della psicoanalisi aveva introdotto un’importante riformulazione della sua teoria degli istinti. Lo studio della clinica psicoanalitica e l’osservazione della vita sociale lo avevano indotto ad ipotizzare l’esistenza di un desiderio antitetico alla pulsione libidica, orientato alla sessualità e difesa della vita individuale, ora riformulato come istinto di vita.

Freud si era convinto che nell’uomo era presente, accanto all’istinto di vita, un desiderio distruttivo, orientato a ricondurre ogni forma di vita allo stato di materia inanimata.

In questo istinto di morte egli riconosceva la fonte di vari quadri psicopatologici, della resistenza ai trattamenti psicoanalitici e più in generale di ogni forma di odio tra umani.

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Più specificamente, nella sua nota lettera ad Albert Einstein – Perché la guerra (1932) –egli affermava che la guerra ha una precisa base istintuale in quanto la struttura della mente umana includerebbe un innato istinto distruttivo. Nell’istinto di morte risiederebbe dunque il motore motivazionale dell’uccisione sistematica di altri uomini.

Uno dei grandi maestri del cattolicesimo contemporaneo, don Luigi Giussani (1966), ci invita ad un atteggiamento di realismo nella riflessione sulle natura dell’uomo e del creato. Qui occorre davvero uno sforzo per accettare fino in fondo la complessità della natura umana. L’aggressività umana non esprime semplicemente una competizione per risorse limitate, per l’amore materno o genitale, per il denaro o per posizioni di potere. Include una componente specificamente distruttiva e sadica.

La clinica psicoanalitica così come la cronaca nera ci mostrano quotidianamente relazioni o interazioni, finalizzate al controllo, alla sottomissione, all’umiliazione dell’oggetto. Finalizzate ad indurre e mantenere situazioni di sofferenza, disperazione, impotenza.

Non occorre studiare i campi di concentramento variamente diffusi nel mondo, i massacri gratuiti di civili. La semplice esperienza della vita familiare o degli ambienti di lavoro offre abbondante materiale a testimoniare forme più larvate ma altrettanto maligne di tali meccanismi interpersonali.

Nel dopoguerra l’istinto di morte ha cerato un certo disagio tra gli psicoanalisti. E’ stato difficile ammettere l’esistenza di una radicale malvagità nell’uomo. Si è sottolineata la natura relativa dell’aggressività umana, il suo rapporto con condizioni sfavorevoli e stati di frustrazione. La posizione di Erich Fromm (Anatomia della distruttività umana, 1973) è forse quella più rappresentativa di questo punto di vista.

La meditazione sulla figura e sulla biografia del Cristo può illuminare la nostra riflessione. Cristo ci viene incontro dalla croce. Perseguitato, deriso, abbandonato. Il dolore è il codice della sua condizione esistenziale.

 E proprio questa è la ragione sensibile dell’universalità del suo messaggio. Cristo ci può parlare dalla croce perché il dolore è la realtà più comune dell’esperienza emotiva degli umani. Dolore della frustrazione, dolore della separazione, dolore dell’impotenza, dolore dell’umiliazione. Dolore manifesto, gridato, dolore celato, dolore negato, dolore talvolta inconscio ed accessibile solo all’osservazione psicoanalitica.

Il dolore fisico ha notoriamente riflessi comportamentali. Negli animali è in grado di scatenare risposte di fight or flight, risposte aggressive, che hanno un evidente valore adattativo. Il dolore fisico genera rabbia e aggressività. La psicoanalisi insegna che anche il dolore emotivo – il dolore mentale – ha riflessi comportamentali.

La via di fuga più immediata, se vogliamo più primitiva, al dolore mentale è l’evacuazione. Il modo più semplice di liberarsi del dolore mentale è inserirlo, travasarlo in un altro essere umano. Il sadico, l’aguzzino, agente della gestapo o capoufficio autoritario, feriscono perché specchiandosi nella vittima trovano una pacificazione al proprio dolore personale.

Abbiamo discusso finora l’aggressività individuale. Ma la guerra? Per comprendere la guerra dobbiamo spostare il nostro obiettivo dagli individui, dalle coppie vittima-carnefice, ai gruppi, piccoli e grandi. L’aggressività individuale si rivolge agli individui. Ma è una forza che destabilizza i gruppi, i gruppi istituzionali, ma anche le famiglie, le coppie. L’odio ed il sadomasochismo coniugale sono alla base della attuale crisi dell’istituzione coniugale. Avvelenano cronicamente il clima familiare. Rendono i legami di coppia fragili. Ancora oggi, in un’epoca descritta come non violenta o meno violenta di quelle che l’hanno preceduta, la famiglia è lo scenario della maggior parte degli omicidi.

Più in generale, l’aggressività reciproca rappresenta una costante minaccia alla sopravvivenza di tutti i gruppi umani. Periodicamente le comunità umane sono turbate da conflitti interni. Nel corpo sociale più ampio si vanno differenziando gruppi più piccoli. La loro identità può essere variamente definita. I membri di ciascuna fazione possono essere accomunati dall’appartenenza ad una determinata etnia, area geografica, classe sociale, partito politico, e naturalmente confessione religiosa.

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Per limitarci alla sola storia europea possiamo pensare alle lotte di fazione dei comuni medioevali. Alla più ampia prospettica dei guelfi e dei ghibellini, alle persecuzioni e guerre civili tra cattolici, luterani e calvinisti, alla guerra rivoluzionaria di Russia, alla carneficina che insanguinò la Spagna nella prima metà del secolo scorso. Le ultime attenuate tracce di questi processi di frammentazione della società umana sono state riconoscibili nelle disciplinate lotte sociali che hanno caratterizzato gli anni sessanta del secolo scorso.

La sopravvivenza del corpo sociale è messa in costante pericolo dall’aggressività circolante nel gruppo. La formazione e la persistenza dei gruppi umani sono possibili solo nella misura in cui l’organizzazione ed il funzionamento del gruppo consentono di processare e moderare l’aggressività interna.

Dobbiamo a Melanie Klein la comprensione dei processi con cui la mente umana è in grado di tutelare le relazioni oggettuali più vitali dell’individuo. La Klein osservò come l’aggressività e l’odio che inevitabilmente infiltrano la relazione madre bambino fin dalle prime fasi dello sviluppo umano possono essere sottratte alla coscienza tramite meccanismi di scissione e proiezione. Nelle relazioni d’amore l’aggressività può cioè essere reindirizzata, proiettata verso oggetti esterni. La loro realtà viene ad essere alterata, la loro rappresentazione assume caratteri distorti, negativi. Ecco nascere il sordido ebreo, il prete perverso, il comunista violento, l’africano feroce e selvaggio.

Mi piace pensare ai gruppi umani come a degli organismi unicellulari. All’interno, finché il sistema è stabile, regna la concordia reciproca, forse l’amore. La interazioni tra gli individui possono essere profonde, ma l’odio e l’ostilità non sono percepite. Sono rivolte all’esterno, agli esseri che popolano l’ambiente extracellulare. Oltre la membrana plasmatica sono in agguato micidiali predatori.

Le società umane si formano e si organizzano attraverso processi lunghi e complessi. Esse acquisiscono così una identità coerente ed una sufficiente armonia interna. L’armonia persiste però solo fino al confine, geografico e culturale. Tra forze politico sociali vicine si crea così una soglia di faglia di frattura. Come le zolle della crosta terrestre, i gruppi umani, le nazioni, le razze (io metterei le culture, il concetto di razza è oggi molto in discussione), le religioni sono in perenne movimento di collisione le une rispetto alle altre. Quando la tensione nella crosta terrestre supera un valore soglia sperimentiamo gli effetti devastanti di un terremoto. Quando la conflittualità tra gruppi umani supera una soglia si scatena la violenza: l’omicidio, la faida, la guerriglia, la guerra.

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La storia dimostra ampiamente come la guerra possa rappresentare un eccezionale strumento per mantenere la coesione sociale. Le gazzette del biennio precedente alla I Guerra Mondiale sono piene di scioperi, manifestazioni represse nel sangue, insurrezioni, rivoluzioni. L’odio verso un nemico regalò senza dubbio qualche ultimo e insperato anno di stabilità alle monarchie delle belle époque. Già nel 1095 Papa Urbano II, chiamando a raccolta cavalieri e popolani per la Prima Crociata sottolineava gli effetti di coesione civile offerti da una guerra combattuta all’esterno dell’orizzonte geografico della cristianità latina:

vi uccidete l’un l’altro, vi fate guerra, e frequentemente morite per le reciproche ferite. Allontanate da voi l’odio reciproco, finiscano le contese, cessino le guerre, si acquietino tutti i dissensi e le controversie. Avviatevi sulla strada del Santo Sepolcro, strappate quella terra dalla razza malvagia e sottomettetela a voi. … per la remissione dei vostri peccati e con la certezza di acquisire la gloria eterna del Regno dei Cieli.

Ora abbiamo – mi sembra gli elementi per rispondere alla domanda che abbiamo formulato all’inizio di questa conversazione: le religioni sono una forza che promuove la pace, o piuttosto contribuiscono a generare e mantenere le guerre tra popoli? L’esperienza religiosa non è ovviamente solo un fatto cognitivo, è una prassi, è uno stile di vita, specificamente è uno stile di vita comunitaria.

Le religioni, sicuramente il Cristianesimo e l’Islam promuovono un’esperienza di vita sociale più intensa. Incoraggiano l’apertura ad esperienze comunitaria di tipo fusionale, ad una condivisione delle emozioni più profonde in un contesto più ampio della famiglia nucleare.

Per l’uomo religioso l’esperienza dell’amore, della malattia, della morte sono sperimentate in una dimensione comunitaria in una misura ignota agli stili della società materialista ed individualista. La preghiera comune, l’esperienza liturgica e rituale del lutto, la condivisione in contesti di gruppo dei propri vissuti emotivi, come avviene nei vari movimenti ecclesiali, creano tra i membri delle confessioni religiosi legami più intensi rispetto a quelli usuali nell’occidente laico.

Quale può essere l’impatto sociale di questa coesione più intensa? Come è possibile realizzare un’armonia così profonda? Qual è il destino dell’aggressività che viene così ad essere scissa ed allontanata? Il legame tra i membri di una confessione religiosa può forse essere mantenuto solo grazie alla crescente ostilità verso i gruppi umani situati al di fuori dell’orizzonte di appartenenza?

Freud stesso era convinto che la minaccia della guerra potesse essere allontanata solo da una umanità nuova, in cui ogni individuo fosse in grado di subordinare la propria vita istintuale ai dettami della ragione, realizzando così una libertà di pensiero ostacolata a suo parare dal controllo della Chiesa.

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Temo proprio che questa prospettiva sia del tutto illusoria. E’ vero, le società cronologicamente mature, le società caratterizzate da elevati livelli di individualismo e materialismo sono poco combattive. L’Europa moderna schiera aerei sofisticati su vari fronti, ma sembra del tutto incapace di sostenere una vera guerra. Anzi, sembra incapace di qualsiasi significativa lotta per la difesa dei diritti sociali ed umani.

L’occidente materialista non rinuncia intenzionalmente alla guerra. Senza una forte identità sociale, nazionale, politica, ma anche religiosa, una guerra è sostanzialmente impossibile. La non belligeranza dei pacifisti europei è in qualche misura inautentica. E’ possibile solo nel contesto di un grande impero nucleare, che allontana e proviene le minacce che giungono dall’esterno.

Tuttavia l’aggressività non è affatto assente dalla società moderna, si piega verso l’interno. Disgrega le forze sociali, e le famiglie. Si rivolge all’interno dell’individuo, trova apparente sollievo nel crescente uso di sostanze, e verosimilmente è un fattore nella diffusione di alcune gravi malattie, come il cancro.

Abbiamo detto che il destino dell’uomo è segnato dal dolore. Il fardello di Adamo e di Eva è pesante. Le condanne loro rivolte dal creatore, lavoro e morte, riassumono una realtà di dolore ben più vasta.

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L’aggressività e l’odio non sono però le uniche soluzioni, sono semplicemente le più semplici. Sentimenti di lutto, umiliazione, invidia, gelosia, rabbia possono essere proiettati. Ma possono anche essere pensati, compresi e tollerati. Possono essere digeriti e controllati ogniqualvolta trovino accoglienza autentica nel contesto di una relazione di amore.

L’orecchio di un uomo che ascolta è il farmaco più efficace per attenuare il dolore emotivo. Proiezione e sadismo diffondono il dolore. Amore e condivisione lo trasformano. E promuovono la maturazione e lo sviluppo, la creazione di realtà sociali più creative e meno paranoidi.

Il contributo più prezioso delle religioni allo stabilimento della pace non risiede solo nei santi precetti morali che esse offrono all’uomo. In un mondo sempre più individualista e frammentario l’esperienza religiosa crea il luogo e lo spazio per una vita comunitaria più intensa.

E’ proprio in questo spazio che l’uomo può condividere il proprio dolore in una dimensione di amore reciproco. A parere di chi scrive solo la pratica e l’esperienza della comunione fanno crescere le comunità umane e possono prosciugare le sorgenti dell’odio.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

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Paolo Azzone
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Psichiatra, Psicoterapeuta, Psicoanalista

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