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Storie di Terapie #12: Priscilla, la Colpa e i suoi 106 Kg

In questo caso la Colpa è il motore della disponibilità indiscriminata e incontrollata di Priscilla. La colpa di essere grassa e non colta.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 17 Set. 2012

Aggiornato il 18 Feb. 2016 15:23

Storie di Terapie 

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.   – Leggi l’introduzione –

 

Storie di Terapie #12: Priscilla. - Immagine: © robodread - Fotolia.com #12. Priscilla, la Colpa e i suoi 106 Kg

Disturbo del comportamento alimentare

Disturbo dissociativo di personalità

 

Quando Priscilla ha occupato l’intero specchio della porta dello studio, impedendo l’entrata della luce mi sono rannuvolato. Non amo lavorare con i disturbi alimentari, forse perché ne sono subdolamente affetto ma, siccome questo vale certamente per me e probabilmente, per molti colleghi per la grande maggioranza delle patologie che trattiamo, mi dico che non posso fami inibire da ciò.

Pregiudizio: una persona obesa, se cerca una terapia, lo fa per riuscire a dimagrire. 

Intendiamoci, Priscilla sa di essere obesa con i suoi 106 kg. da nuda e vorrebbe anche dimagrire ma non è per questo che viene da me. E’ stanca, non ce la fa più, non sa come tirare avanti.

E subito scatta un altro pregiudizio: è la solita depressa insoddisfatta della vita, che chissà quale felicità si aspettava ed è in vena di proteste sindacali con il padreterno o il destino (a piacere per credenti e non).

Secondo errore: non è stanca della vita come chi organizza il suicidio nel senso che è annoiato, anedonico, dolente, privo di desideri. No, Priscilla è affaticata come chi ha troppo da fare.

La terapia potrebbe concludersi qui, con il consiglio di ridurre i ritmi e farsi una bella dormita ma il problema è che, per far così, Priscilla dovrebbe mandare al diavolo una serie di persone tra i quali i suoi tre figli ed il marito che la vedono come una lavatrice, lavastoviglie, aspirapolvere e bancomat contemporaneamente.

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Contratto di terapia può essere dunque questa sua tendenza a sottomettersi ai voleri e capricci dell’altro, scopriremo più avanti, allo scopo di essere accettata. Naturalmente questa sua tendenza attira intorno a lei profittatori e opportunisti di ogni genere, secondo il detto romano per cui “se te fai cantone, te pisciano addosso”.

Priscilla ha quarant’anni e si vanta, a ragione, di una pelle liscia e di un seno solido e copioso che attira immancabilmente lo sguardo degli uomini, nonostante le sottostanti ciambelle che la avvicinano all’omino della Michelin. Con un pizzico di vanità, annota che a vent’anni e quaranta chili fa era “una fica da paura”, ma che le sta bene pure così.

Ha un marito, coetaneo, che gestisce con i genitori un famoso ristorante, e tre figli: Luca di sedici e Marianna di diciassette anni, adolescenti ribelli, viziati e irrispettosi, entrambi abbondantemente sovrappeso e incapaci a scuola, poi c’è Fabio di quattro anni, frutto evidente di un colpo partito accidentalmente. 

Per rendere più vivace la situazione si è dotata anche di un cane bonsai che ha le stesse necessità assistenziali di un San Bernardo ma una irrequietezza che non appartiene al gigante delle nevi.

E’ stufa di essere sovraccaricata dalle richieste di tutti e di essere giudicata inadempiente.

Lavora a casa come estetista su appuntamento, in più vuole laurearsi in medicina e fare il medico, prendersi cura degli altri le viene naturale e le cure estetiche sono un ripiego rispetto alle cure vere e proprie.

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Non si limita a sognare, sta racimolando i soldi per l’iscrizione e passa le giornate a studiare sui libri delle medie e delle superiori dei figli,  per prepararsi ai test di ingresso. Il suo progetto è bollato come velleitario e osteggiato da tutti i familiari, vicini e lontani.

L’attuale famiglia oltre ai figli e al cane annovera il marito Francesco, che è stato ed è il grande amore della sua vita. Quando ne parla il suo viso si illumina come quello delle adolescenti al primo amore.

Lavora nel grande ristorante di famiglia con uno stipendio modesto perché “tanto tutto questo un giorno sarà tuo”. Questo giorno non si presenta  vicino perché i suoceri vivono per il ristorante e, nonostante l’età, non mollano assolutamente la gestione. Entrambi dichiarano orgogliosamente di voler morire tra i fornelli tra una comanda e l’altra.

Francesco, tornato dal lavoro, trascorre tre ore al giorno in palestra e poi altre due di allenamento a casa: per lui, l’attività fisica è un bisogno irrinunciabile. Poi, con le energie ritemprate, si dedica alla critica di Priscilla per il disordine della casa.

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Per dare un’idea della considerazione da elettrodomestico di cui Priscilla gode in famiglia un esempio: se Francesco alle tre di notte si preoccupa perché uno dei figli non è rincasato, la sveglia perché lei gli telefoni. I suoceri inviano un flusso costante di cibo per aiutarla, ma il risultato è che sono loro ad avere il controllo sull’alimentazione familiare e ad invadere costantemente l’intimità domestica. 

Anche il sovrappeso familiare diffuso non si giova di questa consuetudine. Un effetto secondario, che ne è la conseguenza e finisce per rinforzarlo, è che Priscilla non ha mai imparato né a cucinare, né a fare la spesa. Cosa si mangerà a colazione, merendina di metà mattino, pranzo, merenda e cena è l’argomento più interessante per tutta la famiglia, ma lei non sa mettere in tavola che precotti riscaldati al microonde.

La famiglia d’origine di Priscilla è composta dalla madre Amalia, dal fratello maggiore di cinque anni, Bruno e dalla sorella, minore di tre, Silvia. Il padre, amato e idealizzato come l’unico che l’avesse a cuore, è morto per un ictus cinque anni fa. Poiché la notizia la raggiunse in treno, da allora Priscilla non usa più le ferrovie per spostarsi. 

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Il padre lavorava in banca, dove ha sistemato anche il figlio maschio che ora vive fuori Roma. Quando erano ragazzi, ruoli e schieramenti erano i seguenti: Bruno, il primogenito, orgoglio familiare per i successi scolastici, identificato come successore del padre alla guida della famiglia; Silvia, la piccolina, adorata dalle madre, perfezionista e gravemente anoressica, fa un matrimonio di convenienza in via di liquidazione e si dedica alla professione di avvocato prestigioso e danaroso. Tra lei e Priscilla c’è una evidente competizione  che vedono Silvia sempre vincente agli occhi del giudice unico, la madre. 

Sono l’esatto contrario l’una dell’altra: Silvia, tuttora anoressica, bravissima, ricca, egoista e narcisista, ha una naturale tendenza a pretendere tutto dagli altri. Priscilla obesa, sempre giudicata di modeste capacità, coattamente oblativa, ha un’altrettanto incoercibile tendenza a mettersi al servizio di chiunque. 

Tracce di questo modo di fare erano presenti nel padre che, in effetti, aveva una preferenza per Priscilla.

Su di lui Priscilla ha puntato tutto in famiglia ma si è dimostrato il cavallo sbagliato, sia perché il suo potere in famiglia era minore, sia per la sua precoce scomparsa che l’ha lasciata senza sponsor.

Il ruolo di pecora nera, che Priscilla inizia a far suo in adolescenza con comportamenti ribelli e insuccesso scolastico, viene certificato ufficialmente con il suo osteggiato fidanzamento con Francesco e, addirittura, con l’imprevista gravidanza che ne indurrà le nozze. In concomitanza temporale con l’osteggiato fidanzamento, Priscilla inizia ad ingrassare e aumenta di 40 kg in tre anni. 

Oggi sostiene che si trattava di un dispetto che lei, inconsapevolmente, faceva ai suoi, che avevano il mito della bellezza e della magrezza che la sorellina incarnava, una sorta di ulteriore gesto di ribellione.

Chissà, però, che questa spiegazione non sia stata indotta da una precedente psicoterapia sistemica cui fu spedita, superato il livello di guardia dei 75 kg.

Quello che Priscilla riferisce è che il sovrappeso la rendeva invece più simile alla famiglia di Francesco. 

Le due famiglie non si sono mai frequentate e, tuttora, non comunicano e le nonne non collaborano in nessun modo nella gestione dei nipoti. I motivi di ostilità sono opposti, ma simmetricamente sostenuti dalla vergogna.

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La famiglia di Priscilla è sempre stata in soggezione rispetto al potere economico dei consuoceri. Il grande ristorante è, visto da fuori, come una sorgente inesauribile di denaro facile mentre, dall’interno, è percepito come un mostro che richiede un sacrificio esistenziale totale, la rinuncia a vacanze e svaghi e una dedizione monacale per garantire la vita decorosa di chi vi lavora. 

La famiglia di Francesco, al contrario, si è sempre sentita inferiore culturalmente ai consuoceri, lui impiegato in banca, lei insegnante.

Il progressivo lievitare fisico di Priscilla l’ha spostata progressivamente nell’appartenenza da una famiglia all’altra, ma ora si sente straniera da entrambe le parti. 

Soprattutto si sente colpevole: per i suoi è colpevole di essere grassa e non colta, per i suoceri è colpevole di essere disordinata e poco lavoratrice.

Nel continuo tiro al bersaglio su Priscilla anche i figli e Francesco sono impegnati, utilizzando argomenti dell’una e dell’altra parte. Tutti infatti hanno percepito, più o meno consapevolmente, che la colpa è il motore della disponibilità di Priscilla. Non si deve immaginare che questo vissuto di colpa renda Priscilla una persona cupa e pesante, tutt’altro.

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Il suo arrivo a studio è portatore di gioiosità per me , per gli altri colleghi dello studio e per i pazienti in sala d’attesa. Sa farsi voler bene e, soprattutto, sa leggere immediatamente i desideri e i gusti altrui, scrutando i visi. Del resto, si è allenata per tutta la vita a far questo, “scusate il disturbo” sembra sempre premettere ad ogni interazione, “lasciatemi fare e vedrete che soddisferò i vostri desideri”.

Questo comportamento di disponibilità indiscriminata e incontrollata è talmente evidente, anche ad occhi non clinici, che è stato il motivo dell’invio in psicoterapia.

Certamente Priscilla doveva già covare l’idea di farsi aiutare, stanca di essere considerata da tutti una nullità e una schiava, ma la goccia che ha fatto prendere la decisione è stata la cassiera del bar sotto casa.

Una mattina l’ha presa da parte e le ha detto rispettosamente se si fosse o meno accorta che, quando lei entrava per fare colazione, si precipitavano nel bar una serie di vicine e presunte amiche che consumavano ogni ben di Dio e si approvvigionavano di beni di conforto e sigarette che poi lei, regolarmente, pagava per tutti. A lei, invece, nessuno aveva mai offerto un caffè.

Fu la stessa cassiera, a sua volta mia ex paziente, a darle il mio numero di telefono.

La prima volta mi disse che doveva proprio essere grave, visto che anche gli estranei si accorgevano dei suoi problemi.

Una motivazione alla terapia, che comunque faceva  parte del problema, era la preoccupazione che questo suo comportamento potesse danneggiare economicamente e moralmente i suoi cari.

I problemi iniziarono quando  la coscienza della propria vocazione al martirio e la necessità di comportamenti più assertivi furono ricollocate all’interno della famiglia.

Iniziarono allora i sabotaggi, perché la Priscilla “malata” faceva comodo a tutti, se non fosse stato per il suo eccessivo lagnarsi che speravano io risolvessi. Invece, con il rimpianto di tutti, al diminuire delle lagnanze aumentarono le incazzature e questa fu la fase veterofemminista della psicoterapia.

Mi sentivo come una leader in zoccoli e gonnellona a fiori degli anni settanta che spinge una compagna a prendere coscienza e liberarsi dalla dittatura maschile e della schiavitù del ruolo di angelo del focolare.

Avevo un potente alleato: il suo forte  desiderio di fare il medico, tuttavia temetti seriamente che la marcia trionfale verso la conquista dei propri diritti potesse arrestarsi quando fu bocciata ai quiz di ammissione per la facoltà di medicina. Non fu così  anzi,  il lavoro prese una piega migliore. Il cambiamento doveva avvenire soprattutto dentro di lei, le psicoterapie cambiano l’ interiorità e solo per questa strada talvolta producono anche cambiamenti esterni. Dovevo togliermi il gonnellone fiorato, scendere dalle barricate per la gestione autarchica dell’utero e tornare a fare l’artigiano riparatore dell’anima: avrei dovuto trovare un altro modo ed un’altra sede per espiare le mie colpe maschili.

Ci soffermammo su cambiamenti molto più microscopici. Da un lato concordammo con Priscilla che dovesse prestare attenzione ai propri gusti, a ciò che voleva veramente. Per tanto tempo era stata talmente concentrata sulle attese e i desideri degli altri che i propri li aveva persi di vista, non è che li trascurasse a vantaggio degli altri, è che proprio non c’erano più. 

Se molti pazienti devono essere aiutati a decentrarsi, con lei il lavoro fu opposto: doveva ricentrarsi, rimettersi al centro. Partimmo con i gusti alimentari, tema per lei caldo. Anche lì scoprimmo che non aveva preferenze definite, mangiava un po’ di tutto, spinta soprattutto dalla paura di non avere cibo a disposizione nel momento in cui avesse avuto fame.

Riteneva intollerabile la sensazione della fame insoddisfatta. Facemmo varie esposizioni in studio rispetto a questa sensazione, senza mai mettere nel mirino l’obiettivo di dimagrire, poiché anche il dimagrimento non era un suo obiettivo ma un compiacere le aspettative della famiglia.

Una volta che iniziò a percepire i propri gusti e le preferenze iniziammo “Il Training del No”: di fronte ad una richiesta di chiunque altro, doveva evitare di rispondere immediatamente con il “si” che partiva automatico e rispondere un generico “ci penserò”, poi doveva prendersi del tempo per sé, senza la pressione dell’altro e valutare se la richiesta fosse compatibile con i suoi desideri, infine poteva rispondere ed osservare l’effetto relazionale che un eventuale “no” producesse.

Nel giro di tre mesi iniziò ad apprezzare dei cambiamenti: il tono con cui si rivolgevano a lei era più garbato e si era passato dall’ordine alla richiesta, la sua disponibilità non era data per scontata e quando si manifestava veniva ringraziata e ricambiata. 

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Una delle motivazioni fondamentali, per questo lavoro faticoso, era di essere un migliore esempio per i figli.

Il tono costante di criticismo e l’esasperata emotività espressa in famiglia si attenuarono, persino il cagnolino sembrava che abbaiasse di meno e che fosse meno pretenzioso con le sue richieste di uscire a passeggiare.

Un giorno Priscilla arrivò alla seduta piangente. Era venuta in macchina con la madre, che poi avrebbe dovuto accompagnare dalla sorella cui guarda i figli.

Tutto il viaggio era stato occasione di litigi perché Priscilla lamentava le preferenze che la madre mostrava per la sorella. Ad un certo punto, la madre aveva detto di auspicarsi una rapida conclusione della terapia perché le sembrava che stesse sempre peggio e che dubitava della mia competenza. Priscilla era partita in mia difesa rincarando la dose e accusando la madre quando, a questo punto,  la madre aveva detto “mi sa che sarebbe stata meglio l’altra”.

Fu in macchina, sotto lo studio, nel mezzo di un diluvio, che Priscilla apprese di essere nata al termine di una gravidanza gemellare durante la quale il feto della gemella era stato riassorbito. I medici avevano spiegato ai genitori che si trattava di una evenienza piuttosto comune, uno dei due gemelli per sopravvivere fa fuori l’altro. Di lì a pensare che chi sopravvive è il più cattivo il passo è breve. Non ricordava che nessuno glielo avesse mai detto esplicitamente da piccola, ma questo poteva spiegare quel senso di colpa originario che lei avvertiva e che la portava a scusarsi per tutto.

Si rese conto che era una “mission impossible”, il senso di colpa del sopravvissuto rischiava di rovinare la sua esistenza. 

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Privarsi delle cose, abbassarsi, la avvicinava alla sorte della gemella che non era nata, attenuava il gap di fortuna che distanziava le due creature, destinate ad essere identiche. Razionalmente si rendeva conto che neppure la propria morte avrebbe pareggiato i conti perché almeno lei era vissuta per un po’ e poi non aveva nessuna intenzione di morire, non  era questa la strada.

Qui ebbe un colpo di genio che, forse memore della precedente esperienza terapeutica, attribuì ad un sogno in cui correva in una strada del centro, affollata per lo shopping,  insieme alla sua gemella su un tandem. Io, più incline ad ricercare la ragione dei sogni in pesantezze gastriche, preferii immaginarla come una rivoluzionaria ristrutturazione cognitiva.

Sta di fatto che Priscilla pensò che, se non poteva far pari morendo lei, poteva farlo facendo vivere la gemella, che chiamò Livia. D’ora in avanti si sarebbe concesse delle cose per lei ed altre per Livia. 

Per Livia, inoltre, qualsiasi desiderio era ammesso, poichè doveva recuperare anche l’infanzia e l’adolescenza. Sarebbe diventata, insomma, la madre accudente, generosa e complice di questa parte di se stessa che aveva battezzato Livia.

La pregai di considerare tutto ciò soltanto come una metafora e di tenerla per sé, temendo che l’avrebbero portata da un altro psichiatra che avrebbe prescritto, copiosamente, degli antipsicotici.

Di lì a poco concludemmo la terapia, perché era contenta della sua vita, senza prevedere  dei follow up. Immagino che tutto stia andando bene perché da lei ho avuto ulteriori invii. Una di queste persone mi ha raccontato che Priscilla e Francesco hanno avuto un quarto figlio che porta il mio nome. 

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