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Strategie Cognitive e Mental Training: Il Caso di D.

Psicologia dello Sport: Mental Training & Strategie Cognitive: l'importanza degli interventi psicologici di Mental Training negli atleti.

Di Massimo Amabili

Pubblicato il 11 Set. 2012

Aggiornato il 03 Giu. 2013 09:47

di Massimo Amabili

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Strategie Cognitive e Mental Training Nel Motociclismo: Il Caso di D. - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.comPredisposizione naturale a parte, gli atleti imparano gradualmente, mediante prove ed errori, i comportamenti più efficaci da adottare nella prestazione sportiva. Il consolidamento, attraverso la ripetizione, di nuovi schemi comportamentali, sia fisici sia mentali, insegnati all’atleta per meglio affrontare lo stress sia in allenamento sia in gara, fa si che questi diventino quasi automatici, nei momenti di maggiore intensità agonistica, aiutando l’atleta a superare gli ostacoli psicologici nel modo migliore.

La gestione dell’ansia, preziosissima emozione nella performance sportiva, è da valutare di volta in volta in base alla personalità dello sportivo: uno stato ottimale di allerta è di fatto funzionale alla gara che dovrà affrontare. Stati di allerta eccessivi o molto blandi, influiscono negativamente sul raggiungimento della performance sportiva.

E’ qui che il mental training o mental practice, definito come il richiamo immaginativo di un atto motorio, una simulazione mentale del movimento senza che vi sia lavoro muscolare e articolare, né relative esperienze sensoriali (Barr e Hall, 1992; Grouios, 1992; Hall, Bernoties e Schmidt, 1995), diventa fondamentale.

Questa simulazione del comportamento motorio può essere vista nei termini di un modello cognitivo del movimento che necessita di diverse componenti come la motivazione, il carico attenzionale, le immagini mentali visive e cinestetiche, in modo tale da riprodurre, in tutti i suoi aspetti, l’azione che si vuole compiere (Decety e Ingvar, 1990).

L’importanza dei processi di visualizzazione ed imagery motoria per un atleta, sia nel periodo di allenamento sia nella competizione vera e propria, deve essere presa in grande considerazione dalla Psicologia dello Sport; tali processi possono essere adeguatamente guidati ed allenati attraverso specifiche procedure di mental training, allo scopo di fornire all’atleta gli strumenti per ottimizzare le strategie di “mental practice”, con importanti riflessi sulla performance motoria effettiva.

Non solo attraverso la gestione dell’ansia prima e durante la gara, ma anche per diversi altri fattori: l’incremento della coscienza di sé e il miglioramento della gestione delle emozioni, l’aumento dell’autostima, il monitoraggio delle soglie di stress, il controllo mentale della fatica atletica, una maggiore capacità attentiva, un aumento della concentrazione, il controllo del dolore acuto e cronico e il recupero dell’atleta disabile.

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Il presupposto di base è che allenamento fisico e psichico, in relazione a memoria e concentrazione abbiano un ruolo determinante nello sport: cioè, il gesto atletico ripetuto, non solo durante l’allenamento fisico ma anche durante l’allenamento mentale, lo fissa meglio nella memoria, migliorando la prestazione e aiutando l’atleta a superare ostacoli mentali di vario tipo – come si evince dall’ampia letteratura degli studi neurofisiologici sulle reti neurali artificiali di Cottrell, in Taylor A. L. et al e dagli studi sulla mental imagery e sport performance (Hall, Rodgers e Barr, 1990; Benchke, 2004).

La ripetizione del gesto atletico o degli schemi tattici durante il mental training è svolto attraverso la tecnica di imagery o visualizzazione mentale del gesto atletico stesso o della gara, applicata unitamente ad una delle varie tecniche di rilassamento.

Nello stato di mental imagery, è possibile evocare in modalità immaginativa il ricordo della gara al fine di affrontare mentalmente e psicologicamente, risolvendoli, i problemi che si sono presentati. Il linguaggio esterno (della voce) e quello interno (della mente) sono due sistemi diversi che si combinano e si potenziano attraverso il mental training.

Si svolge un vero e proprio allenamento mentale che, fissando i ricordi nella memoria, aiuterà l’atleta a un miglioramento della performance. La visualizzazione mentale del gesto atletico, del proprio schema corporeo durante lo sport, o la visualizzazione di situazioni difficili per l’atleta (come una particolare tattica, o la paura della gara, l’ansia di particolari momenti, etc) integrano efficacemente il lavoro prettamente atletico fisico dello sportivo, apportando un notevole contributo.

Una delle prime possibili spiegazioni alla base dell’efficacia del Mental Training potrebbe essere quella offerta dalla Teoria Psiconeuromuscolare (Jacobson , 1930). Secondo questa teoria i gesti eseguiti mentre immaginiamo producono un’attività neuro miografica- inconsapevole al soggetto- dei muscoli interessati dall’attività immaginativa, vengono prodotti cioè un potenziale elettrico muscolare (EMG), registrabile attraverso uno strumento chiamato elettromiografo.

Questo significa che le sequenze di movimento immaginate attraverso il processo di visualizzazione producano sottilissime stimolazioni nervose ai muscoli coinvolti nell’attività a cui stiamo pensando e producano anche altre risposte (emotive, relative al sistema simpatico e parasimpatico) simili a quelle dell’esecuzione materiale.

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Questi piccolissimi impulsi secondo alcuni autori (Harris e Robinson, 1986; Jowdy e Harris, 1990; Wehner, Vogt e Stadler, 1984; Zecker, 1982; Decety e Michel, 1989; Decety e Ingvar, 1990; Decety e Lindgren, 1991) faciliterebbero un processo di memorizzazione del movimento determinando un aggancio più che favorevole ai gesti motori e agli eventi futuri.

Da queste ricerche emergerebbe il concetto che compiere realmente il movimento o solo immaginarlo attivi gli stessi sentieri nervosi che veicolano il messaggio al sistema muscolare; le visualizzazioni solleciterebbero allora le vie nervose coinvolte nella trasmissione dell’impulso motorio.

Più recente è il contributo della Embodied Cognition, termine utilizzato negli ultimi 10-15 anni per riferirsi a diverse teorie che coinvolgono ambiti disciplinari molto diversi, dall’intelligenza artificiale alla robotica, dalle neuroscienze cognitive alla psicologia cognitiva, dalla filosofia alla linguistica e all’antropologia cognitiva.

In generale, ciò che le accomuna è il fatto di sottolineare l’importanza che ha il corpo per la cognizione; l’idea di fondo è che i nostri processi cognitivi siano vincolati non solo dal nostro cervello ma più in generale dal nostro corpo, in particolare dal nostro sistema sensorimotorio.

A seconda dei diversi ambiti e dei diversi autori questa posizione può però assumere livelli più o meno radicali (si veda ad esempio Goldman e de Vignemont, 2009). Alcuni autori infatti enfatizzano l’importanza del corpo e la centralità per la cognizione dell’azione guidata da scopi (Gallese, 2009; Glenberg, 1997), altri tendono invece a preferire l’etichetta “grounded”, sottolineando così che la cognizione può essere situata non solo nel corpo (Barsalou, 2008).

Secondo tali teorie, quando osserviamo qualcuno compiere un movimento complesso, come guidare una motocicletta, o un’azione, come afferrare una mela e portarla alla bocca, attiviamo una simulazione, una forma di risonanza motoria; il nostro sistema motorio “risuona” con quello che osserviamo. In questo caso, simulare ci può aiutare a predire e comprendere le azioni degli altri, le intenzioni sottostanti e, secondo alcuni autori, addirittura i loro stati mentali (Gallese, 2008).

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Tra le basi neurali sottostanti tale processo di simulazione, il sistema dei neuroni canonici e quello dei neuroni specchio giocano un ruolo di rilievo. Sono state infatti riportate numerose prove secondo le quali durante l’osservazione di oggetti si attiva il sistema di neuroni canonici, durante l’osservazione di azioni altrui il sistema che si attiva è quello dei neuroni specchio. Alcuni autori (Prinz, 1990; 1997; Hommel et al, 2001) hanno proposto diverse teorie basate sul principio ideomotorio, ma la base neurale comune a queste teorie è rappresentata dal sistema dei neuroni specchio.

Tratteremo qui brevemente la principale di queste teorie: la Theory of Event Coding (TEC).

Secondo la teoria TEC, percezione e azione sono così strettamente connesse da venir rappresentate in un formato (o codice) comune. Più sovrapposizione c’è tra quanto percepiamo e il nostro repertorio motorio, più gli eventi che osserviamo (gli stimoli) e gli eventi che siamo in grado di produrre (le azioni) sono simili, più i codici comuni sono attivati, e questo fa sì che la percezione e il riconoscimento di azioni ci risultino più semplici.

Così, se ci vengono sottoposti degli stimoli acustici e ci viene chiesto di riconoscere l’azione che li ha prodotti, siamo facilitati se ascoltiamo il battito delle nostre mani anziché il battito delle mani di altri, dato che l’evento che percepiamo e il suono che con il nostro movimento riusciamo a produrre sono simili (Flach et al., 2003). Analogamente, identifichiamo più facilmente la nostra modalità di scrittura rispetto a quella altrui (Sebanz, Knoblich e Prinz, 2003).

 Negli ultimi anni sono stati ottenuti diversi risultati a supporto di questa teoria. In primo luogo, alcuni studi hanno rivelato l’importanza della prospettiva con cui si osserva un’azione. E’ stato dimostrato che c’è un vantaggio quando osserviamo ad esempio una mano nella nostra prospettiva piuttosto che nella prospettiva di un altro (Vogt, Taylor e Hopkins, 2003). Per esempio, Bruzzo, Borghi e Ghirlanda (2008) presentavano la foto di una mano “prime” seguita da una mano che interagiva con un oggetto; ai partecipanti veniva chiesto di decidere premendo un diverso tasto se l’azione compiuta con la mano era o meno adeguata all’oggetto. La mano, sia “prime” che “target”, veniva presentata in prospettiva egocentrica o allocentrica, come se fosse la mano di un altro. I tempi di risposta erano più veloci quando la mano-target veniva presentata in prospettiva egocentrica, in particolare quando era preceduta da una mano prime in prospettiva egocentrica.

Questo suggerisce che tendiamo a simulare più facilmente le azioni che sono parte del nostro repertorio motorio, rispetto alle azioni altrui (si vedano i lavori di Liuzza, Setti e Borghi, 2012, sulla risonanza motoria in bambini e adulti, e di Ranzini, Borghi e Nicoletti 2011; e di Anelli, Nicoletti, Kalkan, Sahin e Borghi, in press, sulla risonanza motoria nell’osservare mani di umani e di robot). Jackson, Meltzoff e Decety (2006) hanno trovato che aree neurali differenti si attivano elettivamente per la prospettiva egocentrica (corteccia sensorimotoria sinistra) o per quella non egocentrica (lingual gyrus).

Inoltre, studi con pazienti rivelano che cambiare la prospettiva può portare ad attribuire erroneamente le nostre azioni ad altri (Daprati, Frank, Georgieff et al., 1997). In generale gli studi comportamentali confermano che la prospettiva egocentrica è facilitata, probabilmente perché più legata alle azioni in prima persona. Analogamente, sono stati pubblicati studi che mostrano che siamo in grado di predire meglio gli effetti futuri delle nostre azioni rispetto a quelli delle azioni altrui; per esempio siamo in grado di predire con più facilità la traiettoria di una freccia se l’azione di lancio è stata compiuta da noi anziché da altri (Knoblich e Flach, 2001).

Questo suggerisce che ognuno di noi, oltre a riconoscere il modo e lo stile con cui agisce, genera predizioni più accurate basandosi sulle proprie azioni che su quelle altrui.

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Altri studi hanno mostrato che se i movimenti che osserviamo sono parte del nostro repertorio motorio riusciamo a simulare meglio. Calvo-Merino e collaboratori (2005) chiedevano a danzatori esperti di balletto classico e danzatori inesperti di osservare diversi video di ballo. Il sistema di neuroni specchio era più attivato quando i danzatori osservavano la danza che conoscevano bene; questo suggerisce che quando osserviamo altri compiere un movimento complesso tendiamo a formarci una simulazione motoria di quel movimento, e che questa simulazione viene influenzata dalla nostra competenza motoria.

L’effetto non dipendeva dalla familiarità, ma dall’attivazione di una simulazione motoria: in uno studio di controllo l’effetto di risonanza motoria era maggiore quando i danzatori osservavano ballare persone dello stesso genere, anche se avevano uguale familiarità con l’osservazione di movimenti maschili e femminili.

Sono state teorizzate altre spiegazioni sull’efficacia degli interventi di mental training (come la Teoria dell’Apprendimento Simbolico di Murphy et al., oppure la Teoria Bioinformazionale di Lang), ma tutte convergono nel testimoniare l’efficacia di queste tecniche cognitive, in grado di aiutare l’allenamento fisico, per un migliore apprendimento della tecnica fisica e la risoluzione di problemi psicologici.

 

IL CASO DI D.

D. è un ragazzo di 18 anni compiuti, che pratica il motociclismo nel campionato nazionale italiano di velocità. Giovane promessa della disciplina, dopo un periodo di risultati molto negativi, decide di richiedere un intervento psicologico allo scopo di migliorare la propria performance sportiva, iniziando un percorso di mental training.

D. si presenta descrivendo una tipica problematica dello sport, e cioè un problema di iperattivazione: l’atleta esperisce rabbia e ansia con disagio nei momenti che precedono le gare di campionato. Il timore di perdere il controllo della situazione alimentano l’ansia in un vortice che incide negativamente sulla performance.

Dopo una fase iniziale di assessment, mirata alla conoscenza più profonda del ragazzo attraverso colloqui clinici e l’uso di test specifici, D. inizia l’apprendimento della tecnica di rilassamento muscolare distensivo progressivo, unitamente alle prime pratiche di imagery che avevano lo scopo principale di rendere l’atleta capace di utilizzare sia la tecnica di rilassamento progressivo, che l’imagery (inizialmente generica) che gli venivano proposte.

Stabilendo degli incontri settimanali, durante i quali l’allenamento ideomotorio era guidato dallo psicologo, è stato concordato con il ragazzo un homework giornaliero, che consisteva nella ripetizione, mezz’ora prima del quotidiano allenamento fisico, della seduta di rilassamento e di visualizzazione (della durata inferiore ai 10 minuti) a casa; D. ha potuto avvalersi delle registrazioni audio delle sedute registrate ad hoc in base all’obiettivo settimanale, che guidavano il suo allenamento a casa.

Terminata la seduta di Mental Training, l’atleta compilava due griglie di autovalutazione, una relativa al grado di rilassamento raggiunto ed una relativa alla qualità della pratica immaginativa esperita. Il training è durato 14 sedute, durante le quali progressivamente l’atleta ha appreso e migliorato le tecniche di rilassamento e di visualizzazione, come risulta dal confronto tra le griglie di autovalutazione. Attraverso il re-test del QuAM (Questionario delle Abilità Mentali, Marina Gerin Birsa 2006), risulterebbe che l’atleta ha significativamente migliorato tutte le abilità mentali target, quali l’autostima, la gestione dell’ansia, l’attenzione, l’immaginazione, la motivazione, la gestione dello stress e la capacità di organizzarsi per obiettivi.

D. riferisce di non avere più esperito in maniera sgradevole e condizionante il disagio del momento pre-gara; per quanto riguarda gli automatismi introdotti nel mental training relativi all’esecuzione dei gesti tecnici del percorso di gara, D. riconosce un miglioramento nelle proprie gare, confermate dal progressivo miglioramento nei piazzamenti ottenuti nei pochi mesi di attività del mental training.

L’applicazione delle strategie di mental training a uno sport così complesso come il motociclismo (la velocità elevatissima dei mezzi e la lotta in termini di centesimi di secondo per ottenere un podio sono solo un paio di caratteristiche evidenti), sembrano confermare dunque la loro capacità contributiva in termini di miglioramento della performance delle strategie cognitive suddette; ciò lascia uno spazio incoraggiante per studi maggiormente approfonditi sull’argomento, vista la rilevanza che assumerebbe la psicologia negli atleti di altissimo livello di questa disciplina, in un futuro che corre al pari dei loro potentissimi motoveicoli.

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Massimo Amabili
Massimo Amabili

Psicologo e Psicoterapeuta specializzato in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale.

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