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Storie di Terapie #8 – La storia di Ofelia e della sua Ipocondria Ossessiva

La storia di Ofelia e del suo compagno: in psicoterapia lungo un arco di tempo trentennale. Era venuta da me per un problema di ipocondria.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 04 Giu. 2012

Aggiornato il 24 Set. 2012 11:57

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.

– Leggi L’introduzione – 

#8 – La Lagnosa Ofelia

 

•          Disturbo d’Ansia Generalizzato e Ipocondria

Storie Di Terapie #8. La Lagnosa Ofelia. - Immagine: © Sergey Lagutin - Fotolia.comAlcuni pazienti li seguo da così tanti anni da aver dimenticato l’invio e il motivo originario.

Naturalmente non si tratta di un trattamento continuativo, sono interventi spot che vengono richiesti in momenti difficili, in passaggi esistenziali stretti. La difficoltà maggiore, in questi casi, consiste nel mantenere un setting terapeutico senza scivolare in una sorta di consulenza. Con questi pazienti si invecchia insieme, si è reciprocamente testimoni delle fasi dell’esistenza.

Ofelia è una di queste pazienti. Frugando nella mia lacera memoria, negli scaffali dedicati ad Ofelia, mi viene in mente l’immagine di un arancio e cerco di partire da lì: potrebbe trattarsi di un rimando al colore rossastro dei capelli che, a ventott’ anni, la rendevano bella e provocante. E’ vero,  ma non si tratta della pista giusta, poi a me le provocanti vistose non sono mai piaciute, mi intimidiscono. Ecco! La connessione è la buccia d’arancio, Ofelia venne da me perché aveva un’ipocondria ossessiva circa la possibilità di avere un tumore al seno.

La presenza di pelle a buccia d’arancio intorno al capezzolo sinistro aveva insospettito il suo ginecologo che le aveva prescritto una mammografia. Era risultata negativa, ma Ofelia era ormai partita per una strada scivolosa, quella del dubbio e della ricerca della certezza assoluta. Trascorreva almeno due ore al giorno nella palpazione del seno secondo le regole che le aveva indicato il ginecologo e, siccome aveva capito l’importanza della diagnosi precoce, la palpazione avveniva la mattina, dopo pranzo e alla sera. Stava sperperando i soldi in uno studio radiologico vicino casa dove si faceva un’ ecografia ogni settimana.

Il marito, Settimio, non sopportava più le continue richieste di rassicurazioni e le lunghe sedute in cui doveva osservare il seno nudo della moglie per smentire modificazioni della forma. Sul seno, con un pennarello nero, aveva tracciato i confini della buccia d’arancio per controllare eventuali alterazioni.  A vent’otto anni, come a sessanta, Ofelia fumava in continuazione ed altrettanto faceva il marito.

Settimio era un bell’uomo, convinto di essere irresistibile come maschio. Il suo atteggiamento da latin lover era talmente esibito da far sospettare una insicurezza sessuale, sembrava Alberto Sordi in “Un americano a Roma” quando cerca di conquistare la pittrice statunitense.

Entrambi ebrei romani, possedevano due banchi ambulanti, lei di calzini e lui di pantofole.

Il mio intervento fu richiesto quando Ofelia smise di andare a lavorare, avendo deciso che la salute veniva prima di tutto. Passava la giornata in bagno, davanti allo specchio e Settimio, al ritorno la sera, la trovava piangente. L’ipocondria di Ofelia era specifica, non temeva in generale le malattie, certamente la morte le era sgradita e l’idea di lasciare i figli  Giordana e Luca la preoccupava, ma ciò non le impediva di fumare in continuazione e di placare le ansie con  generose dosi di alcolici. Al centro delle sue preoccupazioni c’era il tumore al seno e solo quello, le altre malattie non riuscivano a rubargli la scena e quando le chiedevo il perché di questa differenza tra le malattie, singhiozzando Ofelia mi diceva che se le avessero tolto un seno sarebbe stata una mezza donna, certamente Settimio sarebbe stato disgustato dal suo corpo e l’avrebbe lasciata.

Somatizzazione. - Immagine: © Albix - Fotolia.com
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Immaginarsi da sola era per lei impossibile, le sembrava di precipitare in un pozzo buio senza fondo, mettendo in relazione questa disperante solitudine con la colpa di non essersi impegnata sufficientemente nella prevenzione possibile del carcinoma del seno. La malattia e il conseguente sprezzante abbandono da parte di Settimio le apparivano come una meritata punizione per la sua colpevole trascuratezza, che in altri campi le era sempre stata rimproverata soprattutto da Sara, la madre.

Era la seconda di quattro figli; la primogenita, Erminia, aveva sempre attirato le attenzioni dei genitori perché, sin da piccola, aveva mostrato comportamenti bizzarri, a tredici anni era diventata anoressica e a diciotto, dichiarandosi lesbica, era andata a vivere con la sua compagna.

Il terzo figlio era Anselmo, subentrato al padre nella gestione del banco di famiglia, gestiva le sorti economiche, sempre zoppicanti, dell’intera tribù. L’ultima, Giovanna, era sempre stata in conflitto con Ofelia che mal sopportava il suo mostrarsi perfettina, ordinata e sempre obbediente alle aspettative dei genitori e della sorella. Tra le due, c’era sempre stata una gelosia esplicita e una competizione per aggiudicarsi le attenzioni di mamma Sara. In questa partita, Giovanna ha assunto l’identità della figlia in gamba, di successo, solida e sana mentre Ofelia, per contrasto, si è distinta come debole, malata e bisognosa d’aiuto.

Il padre Antonio, era sopravvissuto ai campi di sterminio nazista ma non era più tornato a vivere veramente. Passato precocemente il testimone della guida economica della famiglia ad Anselmo, si era ritirato in un silenzio da cui usciva raramente, solo per andare a bere con gli amici ed ubriacarsi con cadenza settimanale o per andare a scommettere sui cavalli, sperperando quanto tutta la famiglia riusciva a guadagnare.

Ofelia era affezionata a questo padre che, tuttavia, sentiva come un nonno, benevolo ma impotente; lei si era sempre percepita senza protezione e incapace di cavarsela da sola. Per questo si innamorò dell’atteggiamento da gradasso e da bulletto di periferia di Settimio. 

In questa fase iniziale della terapia non riuscii ad arginare Settimio che, più di una volta, si intromise con il suo fare da “maqualèilproblemacipensoio”. Del resto, lui era effettivamente coinvolto per le continue richieste di rassicurazioni e per lo stravolgimento della vita familiare e lavorativa che ormai giravano intorno ai controlli senologici di Ofelia. Lei ne era contenta, perché era un modo per avere ancora più vicino Settimio. Ho sempre sospettato che ci fosse anche un altro recondito motivo in questa volontà condivisa di essere entrambi in terapia: Settimio era geloso della moglie e mal tollerava che avesse una relazione, seppure terapeutica, da cui lui fosse escluso. Ofelia, che era sempre esposta alle effettive e soprattutto raccontate performance seduttive di Settimio con le altre donne, avrebbe potuto vendicarsi.

Per tutta la vita Ofelia si è ritenuta una bella donna ed ha amato esibirsi, anche con eccessi giovanilistici che, soprattutto in vecchiaia, l’hanno talvolta esposta al ridicolo. L’abbigliamento provocante di Ofelia è sempre stato oggetto di critiche da parte dei genitori e di gelosia da parte del marito, ciononostante lei non ha mai avuto un altro uomo neppure in fantasia, la sua mente e il suo corpo sono stati sempre e solo per Settimio. 

La non voluta presenza del marito in terapia fu comunque provvidenziale: tanto più Ofelia si convinceva che lui le voleva effettivamente bene e che non l’avrebbe mai lasciata, tanto meno la terrorizzava la prospettiva di perdere un seno per tumore. Rassicurata sulla relazione con il marito, abbandonò progressivamente le preoccupazioni ipocondriache e le compulsioni di controllo per scongiurare la sua responsabilità nella genesi della malattia.

Per i successivi sette anni i contatti con Ofelia si limitarono agli auguri per le feste comandate che segnalavano “tutto a posto!”.

A trentacinque anni Ofelia richiese un nuovo intervento perché, a suo dire, era precipitata nella depressione. In effetti, sembrava che fossero passati più di sette anni, la sua vivacità, a volte persino eccessiva, era spenta, il suo aspetto impolverato, le gonne allungate sotto il ginocchio, le calze sfilate, i maglioni trattenevano odore di fumo.

Il momento più difficile era al mattino appena sveglia: immaginando la sua giornata come in un film, nulla di tutto quello che l’aspettava la interessava, aveva paura della fatica che sapeva le sarebbero costate tutte le normali incombenze, temeva di non farcela, di sbagliare, di arrendersi e di essere  criticata da tutta la sua famiglia d’origine e da Settimio come pigra, incapace, malata mentale, un peso e una buona a nulla.

Il corpo sembrava non farcela a staccarsi dal letto, un macigno sembrava attaccato all’esofago che sentiva strattonato verso il basso.

L’esistenza le sembrava un esame difficilissimo e lei uno studente impreparato. Passava mentalmente in rassegna la giornata che stava per cominciare e i giorni successivi e non vedeva che pesantezza e paure. Quando si sentiva in questo stato penoso piangeva sommessamente e si lamentava chiedendo aiuto come una bambina di cinque anni smarritasi nel bosco, con l’effetto di ricevere un coro di critiche per la sua debolezza e mancanza di volontà e il sistematico allontanamento degli altri.

In questa seconda tranche della terapia ci concentrammo su tre aspetti: la stabilizzazione di una idea di se stessa che non fosse così totalmente dipendente dal giudizio degli altri, l’identificazione di strategie diverse per chiedere aiuto, che fossero più adulte e assertive del fallimentare trasformarsi in una bambina lamentosa e umidiccia, la creazione di interessi e spazi di attività propri.

Ofelia si iscrisse ad una scuola di ebraico,  a corsi sulle sacre scritture e avviò un banco tutto suo, coinvolgendo il fidanzato di Giordana.

Seguì un periodo lungo di relativo benessere, riuscì a sospendere gli ansiolitici diventati compagni inseparabili delle sue giornate ed ebbe accesso a ricordi perduti. In una seduta drammatica, riferì di aver vomitato svegliandosi di soprassalto la notte precedente: aveva ricordato nitidamente un tentativo di abuso da parte del padre, una notte che era tornato ubriaco quando lei aveva dodici anni. Ricordava con senso di colpa che, spaventata all’idea di essere presa con la forza e già a conoscenza delle questioni sessuali, aveva consenzientemente masturbato il padre perché finisse al più presto possibile. Aveva sempre scusato il padre attribuendo il suo comportamento all’esperienza del lager.

Ofelia era anche convinta di due cose: che sorte peggiore fosse toccata ad Erminia, la sorella maggiore e che ciò fosse stato decisivo nello sviluppo della sua omosessualità e che  la madre avesse intuito, se non proprio saputo, quanto accadeva, tacendo per tenersi comunque il marito.

Sfortuna volle che, a distanza di un mese esatto da queste rivelazioni, il padre decise di seguire l’esempio di Primo Levi e di prendere la scorciatoia della tromba delle scale. Si cercò di camuffare l’evento con un malore, ma la volontà suicidaria era evidente. I motivi del gesto furono cercati in varie direzioni: le presenti difficoltà economiche causate dal vizio delle scommesse sui cavalli, la preoccupazione per malattie fisiche incurabili, l’impossibilità di superare l’esperienza del lager con il conseguente senso di colpa che accompagna sempre i sopravvissuti e altro ancora. Nessuno seppe mai la risposta.

Accettazione del Lutto. - Immagine: © bruniewska - Fotolia.com
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Ofelia si convinse che fosse sua la colpa del gesto del padre, avendomi rivelato il segreto che la legava a lui e nella sua testa, la mia immagine professionale  dovette essere associata con questa presunta colpa e risultare, perciò, dolorosa, sta di fatto che per dieci anni non ebbi notizie di lei neppure per le feste comandate.

Si ricorda di me, dottore?

Con questo incipit, che tradiva con l’utilizzo del “lei” un avvenuto allontanamento, Ofelia iniziava, con una telefonata alle sei  del mattino,  la sua terza richiesta di aiuto. Si meravigliò molto che la riconoscessi immediatamente e questo mi meravigliò a mia volta: lei  non si aspettava di poter essere a lungo nella mente di un altro.

L’ora della telefonata denotava una certa urgenza, confermata dal tono di acuta disperazione. Non sembrava più la bambina umida, abbandonata nel bosco, ma pur sempre una donna disperata. Sentirsi da me riconosciuta le consentì il recupero di una respirazione meno singhiozzante, che fosse compatibile con il parlare e mi raccontò che, la sera precedente, aveva scoperto dei preservativi nel portafoglio di Settimio. Messo alle strette, aveva confessato una relazione triennale con una donna più giovane e la ferma intenzione di separarsi.

Ci accordammo per vederci il giorno seguente e mi opposi alla presenza di Settimio, che voleva esserci per esporre le proprie ragioni.

Quando si rivede, dopo parecchi anni, un proprio coetaneo non si può fare a meno di immaginare i segni del tempo sul nostro aspetto vedendoli nell’altro. Stava invecchiando malamente, come fanno spesso i belli da giovani, era  ingrassata, nascondendo le forme che l’avevano resa famosa nel suo ambiente, il seno, sfuggito alla temuta malattia, era esibito generosamente ma lo sguardo vi rimbalzava per soffermarsi sulle occhiaie che, scure e profonde, incorniciavano uno sguardo perduto, che non vedeva nulla perché non c’era per lei più nulla da vedere.

Il suo mondo aveva perduto la luce, la rabbia non aveva ancora avuto modo di istallarsi sul volto, era una maschera da tragedia greca di tristezza mista a sorpresa e la bocca non sapeva se restare aperta o pendente ai lati.

Ebbi paura. Per decidere se ricoverarla o meno ripercorsi mentalmente tutti gli indicatori di rischio suicidario e mi fermai, ad un passo dalla asticella decisiva, soprattutto scelsi di correre il rischio perché un ricovero avrebbe confermato, a lei e agli altri, l’idea di essere una povera matta inaffidabile. Ci accordammo per telefonate giornaliere, incontri bisettimanali e abuso di ansiolitici. Il lavoro da riprendere in questa fase aveva gli stessi obiettivi della precedente, in sintesi la conquista dell’autonomia che diventava urgente a motivo dell’imminente separazione.  Settimio, nell’andar via, portò con sé quante più risorse possibili e Ofelia vide  materializzarsi i due mostri con cui aveva sempre combattuto, la solitudine e la povertà.

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Superati i cinquant’anni, Ofelia riteneva impossibile crearsi una nuova relazione affettiva e pensò di dedicarsi al ruolo di madre e di nonna dei quattro nipotini. Inaspettatamente, però, Luca e Giordana si schierarono apertamente con  il padre. Sebbene fosse stato lui ad andare a convivere con una trentaduenne molto chiacchierata nella comunità e avesse prosciugato i conti in banca familiari, la responsabile era Ofelia che lo aveva stremato con il suo carattere. Lo stesso atteggiamento di condanna venne dalla sua famiglia di origine, che continuò a mantenere buoni rapporti con Settimio. La madre, Sara, andava fiera del conservato buon rapporto con il genero e organizzava pranzi con i nipoti, i bisnipoti, Settimio e la nuova compagna. L’unica indesiderata era Ofelia.

La vendita della casa coniugale per permettere l’acquisto di una abitazione per la nuova coppia la costrinse ad un importante cambiamento: dovette spostarsi in un monolocale sul litorale romano acquistato con la parte a lei spettante. Quella coppia, che avevo giudicato simbiotica e fusionale, sembrava effettivamente e definitivamente separata.

Passato quasi un anno, provavo orgoglio per il risultato di autonomia raggiunto da Ofelia, quando fu lei a stupirmi. A motivo delle pratiche per la separazione aveva dovuto incontrare più volte Settimio e, con grande soddisfazione per la rivincita sulla rivale, era diventata la sua amante clandestina. Avevano ripreso un’attività sessuale clandestina e trasgressiva con una frequenza quasi giornaliera. Nel monolocale a Torvajanica o nella Mercedes di Settimio nei parcheggi romani, avevano ritrovato la passione travolgente dei diciotto anni.

Un giorno Ofelia ebbe persino il timore di poter essere rimasta incinta, nonostante i suoi cinquantaquattro anni si era sentita così eccitata da aver fantasticato un’ ovulazione straordinaria ad hoc per l’uomo di tutta la sua vita.

Quella coppia, che non riusciva a stare insieme e non riusciva a lasciarsi, aveva su di me un certo fascino, erano stati tutta la vita impegnati in un gioco erotico di seduzione e tradimenti graffiante,  doloroso e impenetrabile agli altri. Settimio aveva avuto molte donne e molte di più ne vantava. Io ero stato l’unico “altro uomo” di Ofelia attraverso tutte le stagioni della sua sofferta esistenza.

Lo venni a sapere dalla conoscente che mi aveva inviato Ofelia venticinque anni prima: Settimio era stato trovato morto per un ictus in un motel sulla Roma-Aquila, dove si era recato per incontrare una prostituta. Mi sentii in dovere di partecipare al funerale. Anche durante la cerimonia si percepiva nettamente la separazione di Ofelia sia dalla sua famiglia d’origine che da quella attuale: figli e nipoti la ritenevano responsabile della separazione e della conseguente morte di Settimio.

Violando qualsiasi norma di setting la invitai a farmi visita. Quando entrò nel mio studio, per quell’ultima volta, non aveva nulla della ventottenne rossastra che era arrivata lì trent’anni prima, sembrava una ex prostituta dedita ai gatti quando gli uomini prendono  a disprezzarla.

Aveva il tipico aspetto della barbona: vestiti lisi, con puzzo di fumo misto a urina stantia, pantofole invernali con la lampo sul davanti, capelli grossolanamente tinti di nero corvino con ricrescita candida di almeno un mese, giaccone maschile, evidente dono della Caritas diocesana e borsa per la spesa sottratta da un cassonetto alla smania riciclatoria dell’AMA.

Due cose erano rimaste praticamente intatte: il seno esposto a sfidare il mondo e l’immancabile sigaretta senza filtro tra le labbra grigie. Mi disse, sfibrata nell’animo, che i figli le avevano fatto causa per prendersi il monolocale di Torvaianica, sostenendo che lo aveva comprato con i soldi del lavoro del padre e, dunque, spettava a loro.

Quindici giorni dopo, fui di nuovo al cimitero per un’altra funzione funebre, la sua.

Quando gli addetti richiusero la lapide con le due bare fresche e i parenti si allontanarono, ebbi un pensiero irriverente: là sotto, Settimio e Ofelia, avrebbero scopato per l’eternità.  

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