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Storie di Terapie #9 – Agostino l’eremita. Un caso di Schizofrenia

Schizofrenia, Agostino: i matti più gravi probabilmente non arrivano alla nostra osservazione e vivono la loro esistenza senza interferenze.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 18 Giu. 2012

Aggiornato il 03 Set. 2012 14:12

STORIE DI TERAPIE

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.   – Leggi l’introduzione –   

 

Lorenzini_Agostino l'eremita. - Immagine: © deviantART - Fotolia.com

I matti più gravi e più belli probabilmente non arrivano mai alla nostra osservazione e vivono la loro folle esistenza senza interferenze.

Una piccola schiera di insensati minori bussa alla porta dei Centri di Salute Mentale o degli studi privati, a seconda del censo e non della patologia. Intermedio tra i due gruppi precedenti ce n’è un altro: sono i matti così matti da non sapere di esserlo per cui non fanno alcuna richiesta, ma così fastidiosi, o così insopportabilmente dolenti, che sono gli altri, familiari, conoscenti o semplici vicini a richiedere le cure. 

I problemi che subito si presentano sono due: non hanno nessuna intenzione d’incontrarci, siamo noi a dover andare in trasferta nelle loro tane dove si rifugiano da un mondo pericoloso da evitare e non hanno alcuna intenzione di curarsi e di perdere tempo con noi. 

Parlando di questi pazienti ho immediatamente adottato il plurale infatti, un terapeuta solo non può sopportare la responsabilità, le frustrazioni e la continuità che il trattamento di pazienti del genere richiedono. 

Nella maggior parte dei casi tutto l’intervento avviene in emergenza per lo scatenarsi di una crisi. Allora si arriva con le sirene più o meno spiegate e l’animo rattrappito e si cerca di far ordine in un casino in cui tutti sono spaventati perché non capiscono cosa stia accadendo e si aspettano una magia. L’autorità di intervenire ci viene direttamente dalle forze dell’ordine, il  problema è, in genere, più di ordine pubblico che sanitario e lo psichiatra, se non sta attento, viene risucchiato nell’antico ruolo di castigamatti. Come ci si muove, in quel delicato ed esaltante frangente, pregiudicherà tutto il successivo sviluppo della relazione terapeutica.

Riaprono i Manicomi? - Immagine: © arquiplay77 - Fotolia.com
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Diverso è il caso di quando si è chiamati ad intervenire su una situazione grave ma assolutamente cronicizzata, in cui cronico non è solo il paziente ma anche le relazioni con il suo microcosmo, congelate e identiche per anni. La patologia non è vista dal paziente ma neppure dai familiari,  anche le cose più mostruose col tempo diventano normali, ci si abitua. 

Poi un giorno passa un estraneo, un occhio nuovo guarda e dice:

 “ma è orribile! bisogna fare qualcosa, chiamate qualcuno!” 

A noi ci chiamò il sindaco neoeletto di un piccolo paese, che aveva scoperto Agostino nel suo giro postelettorale alle famiglie che presumeva lo avessero votato.  

In paese non si sapeva più nulla di Agostino da dieci anni, alcuni lo credevano morto, altri definitivamente ricoverato in qualche residuo manicomio in Italia o all’estero. 

Bussammo alla porta di casa un martedì mattina piovoso di fine ottobre. Il primo risultato fu la precipitosa fuga di un gatto dalla buca gattaiola intagliata nel portoncino. Il tempo di raggiungere l’uscio e la madre ci aprì. Entrammo in una grande cucina con un caminetto spento, una scala laterale, una porta sul fondo e nessuna finestra.

Era una donna molto  bassa e altrettanto larga, ci scrutò con sospetto da capo a piedi e, sentito che il mandante era il sindaco, decise che eravamo innocui e ci fece entrare. Aveva una età indefinita tra i quaranta e i settant’anni e alle spalle una vita che le aveva incurvato la schiena tanto da rendere impossibile guardarla negli occhi.

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Lei era l’avamposto avanzato che difendeva il rifugio estremo di Agostino. Nel chiedergli del figlio, notammo un moto di sospettosità e un movimento quasi difensivo. Ci fece enorme tenerezza. Al contrario di tanti parenti che, stroncati dalla pesantezza di una assistenza impegnativa e difficile non chiedono altro che il congiunto sia ricoverato, la mamma di Agostino si preoccupava che glielo portassimo via e quasi si parò col corpo di fronte alla porta della camera del figlio. Le spiegammo che le leggi erano cambiate e che le cure e l’assistenza sarebbero stati esclusivamente domiciliari. 

Iniziò a fidarsi e ci raccontò la storia di Agostino. Era il più piccolo di tre figli maschi che, insieme al padre, erano emigrati in Belgio a fare i minatori quando Agostino aveva solo sedici anni. A suo avviso, la fatica e la lontananza dalle cure materne li aveva stroncati. Erano tornati in Italia quando Agostino aveva diciannove anni e aveva iniziato a fare bizzarrie sul lavoro che ne avevano provocato il licenziamento. In Italia, i due più grandi avevano ripreso a coltivare la terra e si erano sposati, vivevano in condizioni misere ma nessuno gli parlava dietro. Il marito aveva iniziato a bere, a giocare, sciupando così i pochi risparmi accumulati in Belgio. Il suo alcolismo lo aveva reso aggressivo e la povera donna, per non farlo uscire ogni sera, lo chiudeva con una catena ed un lucchetto nella stanza dove attualmente si trovava Agostino. Il padre usci da quella stanza solamente dopo morto nel sonno. 

Agostino era stato un ragazzino normale ma somaro a scuola, che aveva interrotto alla terza elementare. La madre ci raccontò con estrema naturalezza che aveva sofferto di enuresi, che era stata curata con il sistema diffusissimo del topo lesso. Assolutamente efficace e consistente, appunto, nel dare un tale alimento al bambino ogni mattina che si svegliava bagnato. Informatoci scoprimmo che si trattava di usanza assolutamente normale e giudicata da tutti insostituibile.

Alle stranezze in Belgio, che lei poco ricordava, era seguito un comportamento preoccupante anche al ritorno in Italia. Agostino metteva le mani addosso alle ragazze, si spogliava di fronte alla gente e gridava oscenità irripetibili, rubava  e si allontanava dal paese, a piedi e senza meta, per giorni e giorni, fughe che  si concludevano spesso con il ricovero presso qualche manicomio anche in parti lontane di Italia. Dal manicomio venivano chiamati i familiari e i fratelli se lo andavano a riprendere. 

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Poi si ricominciava da capo: qualche molestia, qualche furto e poi la fuga e il ricovero. Da ogni ricovero, Agostino tornava peggiorato con i segni di percosse e apparentemente più istupidito, i familiari non volevano più ricoverarlo ma per i paesani rappresentava una minaccia e, più  volte, chiesero alle autorità un ricovero definitivo; a volte, in seguito a piccoli incidenti lo massacravano di botte fino a metterlo in pericolo di vita. 

A questo punto, la madre e i fratelli decisero di proteggerlo nascondendolo nel rifugio che era stato del padre: la porta con la catena si aprì per Agostino vi scomparve dentro. 

In quella tana stava recluso da otto anni senza mai uscire. 

Agostino, tuttavia, non era entusiasta della soluzione adottata e iniziò ad essere ostile con la madre, protettrice e secondina. Si rifiutò di andare a mangiare nella adiacente cucina con lei e si infilò a letto senza più uscirne. Smise di parlare, si alzava soltanto per prendere il cibo che la madre gli passava attraverso un foro praticato nella porta della camera e per fare i bisogni in un vaso che transitava dallo stesso buco. La madre non lo vedeva in faccia e non ne udiva più la voce da ormai sei anni, anni che lui aveva trascorso sdraiato o accovacciato su un letto ricoperto di residui alimentari e detriti corporei.

Ritenemmo con Vanni, mio straordinario collega, di procedere con estrema pazienza e lentezza, per non spaventare Agostino che si era rifugiato lì da un mondo che lo spaventava

Le prime tre visite trascorsero, nella adiacente cucina, a parlare con la madre e poi ad alta voce tra noi perché familiarizzasse con le nostre voci. Spiegammo le nostre intenzioni di offrirgli semplice compagnia, ma non eravamo affatto certi che ci sentisse o ci capisse. 

All’inizio del secondo mese togliemmo la catena alla porta e l’aprimmo, senza tuttavia varcare la soglia. Sotto la coperta si vedeva la presenza di un corpo ma il volto era completamente coperto dal lenzuolo che doveva essere stato bianco e appariva marrone scuro. La volontà di non essere invasivi e l’odore che proveniva dalla stanza ci trattenne fuori . 

Sviluppi Traumatici, Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Liotti G. Farina B. (2011). Cortina Editore. - Immagine: Copertina, Raffaello Cortina Editore
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Il modo di comunicare con Agostino era , per così dire, trasversale: Vanni ed io parlavamo tra noi e, talvolta, con la madre,  cercando di mandargli dei messaggi che veicolavano voglia di aiutarlo, curiosità per la sua situazione e la sua storia, disponibilità a fare ciò che lui voleva. Saputo dalla madre che da piccolo adorava dei tipici dolcetti da forno locali, iniziammo a portarglieli ogni volta e con la scusa di lasciarglieli a portata di mano, ci avvicinammo fino al comodino. Scoprimmo con piacere la settimana successiva che li aveva mangiati e aveva conservato la carta  piegata accanto al cuscino. Aveva accettato il dono e ci parve un grande successo. Dopo altri due mesi di dolcetti settimanali ci fu chiaro che gradiva la nostra presenza e addirittura aspettava il nostro arrivo, unico evento che interrompeva il fluire sempre uguale del tempo.

Ci sembrò il momento di fare un passo avanti e di guardarci in faccia. scoprimmo lentamente il viso sotto il lenzuolo. La madre, da lontano, scoppiò a piangere rivedendo il figlio dopo sei anni. Barba e capelli non erano stati mai tagliati, l’igiene dentale non era quella raccomandata dai migliori dentisti, ma gli occhi di Agostino brillavano vispi, pur se attenti ad evitare lo sguardo altrui.

Un contatto fisico ci parve una violazione intollerabile e andammo avanti con la comunicazione trasversale ma in sua presenza, trattenendo gli infermieri zelanti che volevano lavarlo e verificare le condizioni del corpo, a letto da sei anni. Lui non ci rivolse mai né parola nè sguardo, ormai senza speranza ci limitavamo a fargli compagnia, dopo i saluti iniziali parlavamo tra noi delle nostre cose e prima di andarcene lo sollecitavamo con la solita stereotipata frase “e dai Ago… perché non ci accompagni al bar una volta?!” 

Era una bellissima giornata di primavera inoltrata quando, sulla porta, ci raggiunse alle spalle una voce sconosciuta e un po’ fessa che disse senza esitazioni “No, grazie, un’altra volta”. Per poco non inciampammo l’uno sull’altro. Tornati indietro, lo trovammo impegnato in un severo rimprovero di se stesso, si diceva “te sei distratto” “maledizione alla tua distrazione” “ormai sei fregato”. Continuò a lungo con questo tono di rimprovero, che a noi piacque interpretare come il segno che Agostino si fosse dato il compito preciso di non parlare con nessuno, ma che le sue capacità cognitive fossero rimaste intatte. Era l’ottimismo che assiste e deve assistere i curanti e li porta a sopravvalutare i segni positivi, per continuare a curare.

 

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Comunque, da quella mattina di primavera, Agostino tornò a parlare, usando un linguaggio particolare che chiamammo “agostinese” e, poiché anche noi lo usavamo per parlare con lui, divenne una abitudine, simpatica all’interno del Centro di Salute Mentale, ma sgradita in famiglia. 

Le regole fondamentali dell’agostinese erano che: il  soggetto si esprimeva sempre in terza persona per cui io vado via diventa “se ne va via”, Agostino definiva se stesso come “il più piccolo”, qualsiasi interazione con il mondo era considerata “una critica”, il concetto che alla fine andava sempre riaffermato con forza era che “vali uguale”, la sintesi della filosofia agostiniana era condensabile in un discorsetto del tipo “tra una critica e un’altra critica t’hanno offeso, e ridai sa, t’hanno offeso un’altra volta, ma il più piccolo lo sa che vale uguale”. 

E noi di rimando: “ma Agostino, il più piccolo, non si deve offendere, un consiglio non è una critica e lo sappiamo che vali uguale”

Con il passare dei mesi avevamo l’impressione di conoscere l’animo di Agostino e che lui conoscesse il nostro, tant’è che a volte interveniva nei nostri discorsi con suggerimenti colmi di frasi fatte. 

Il nostro obiettivo non era che si iscrivesse all’università ma solo di migliorare la sua qualità di vita. Iniziò ad alzarsi dal letto e a sedersi al tavolo di cucina per consumare i pasti. A quel punto fu possibile, senza forzarlo, tagliargli le unghie di mani e piedi che gli impedivano, dopo sei anni di abbandono, di camminare e usare le posate. Ormai l’ora che trascorrevamo settimanalmente insieme passava cucinando salsicce sul focolare della cucina, sfogliando e commentando le riviste che gli portavamo con sporadici suoi interventi sulle critiche e sul valore personale. 

Durante l’estate raggiungemmo il massimo della soddisfazione: uscimmo in piazza con Agostino vestito a festa, ci facemmo delle foto insieme e andammo a prendere un caffè al bar. 

Il mese dopo la madre morì per un carcinoma al retto.

Rimasto solo, Agostino sembrava destinato ad un ricovero, ma i fratelli si accordarono per continuare a portargli tutti i giorni il pranzo e la cena.

Un giorno ci chiamarono perché Agostino era strano e si lamentava vistosamente. Giunti al suo capezzale ci rendemmo conto che trattavasi di un addome acuto. Con fermezza lo invitammo a venire con noi in macchina all’ospedale. Al Pronto Soccorso ci lasciò di nuovo di stucco. Va considerato che non ci aveva mai chiamato per nome e mai si era rivolto a sé in prima persona. Al medico che lo interrogava disse testualmente: “  Sono Agostino…”, declinò le sue complete generalità, “loro sono come parenti e mi hanno accompagnato in macchina di corsa perché sto tanto male”.

Il medico deve essersi lungamente chiesto perché, due apparentemente garbati operatori della ASL, sibilassero all’unisono sottovoce “Agostino, ma vaff…..!!” 

L’infarto intestinale gli concesse altri tre giorni di vita. Al funerale eravamo in mezzo ai fratelli e pensai che il padreterno sapeva che, nonostante tutte le critiche, il più piccolo valeva uguale.

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