expand_lessAPRI WIDGET

La costruzione di narrative personali in terapia cognitiva.

Narrative personali e il gioco interattivo clinico-paziente che definisce il senso complessivo della conversazione e i significati locali.

Di Gianluca Frazzoni

Pubblicato il 08 Giu. 2012

Aggiornato il 15 Giu. 2012 14:48

 

Parte 1


La costruzione delle narrative personali in terapia cognitiva.
Parlare di sé con un esperto dei sé. di Silvio Lenzi e Fabrizio Bercelli. Eclipsi Editore

 Leggendo il volume di Lenzi e Bercelli “Parlar di sé con un esperto dei sé – L’elaborazione delle narrative personali: strategie avanzate di terapia cognitiva” (2010), e’ possibile comprendere meglio cosa si intenda per narrativa personale nel contesto terapeutico e quale sia la modalità adottata dalla terapia cognitiva per aiutare il paziente a ricostruire un tema di vita personale soddisfacente.

Il libro analizza dapprima le tecniche utilizzate in seduta da terapeuti diversi, allo scopo di tracciare un quadro esaustivo delle interazioni che si vengono a creare fra il clinico e il paziente; se da un lato infatti si tratta di conversazioni il cui sviluppo e’ talvolta simile a quello di un normale scambio dialettico che potrebbe avvenire anche al di fuori del setting, dall’altro e’ molto più frequente notare come sia il terapeuta stesso, attraverso interventi verbali e non verbali, ad indirizzare la seduta verso temi e aspetti che egli si propone di approfondire.

Il libro di Lenzi e Bercelli analizza le sedute utilizzando strumenti della pragmatica linguistica, tra cui la teoria degli atti linguistici di Austin (1967) e la logica conversazionale di Grice (1975, 1989), nonché teorie dell’interazione sociale come la frame analysis di Goffman (1974). Accanto a questi approcci emerge però il riferimento costante all’Analisi Conversazionale (Leonardi, Viaro, 1990; Bercelli, Leonardi, Viaro, 1999; Galatolo, Pallotti, 1999; Hutchby, Wooffitt, 1998), che servendosi della trascrizione fine degli scambi linguistici, e inserendo in essa elementi paralinguistici (pause, sovrapposizioni di parola) e non verbali (mimica, postura, gesti, sguardi), ricostruisce la negoziazione locale dei significati fra i partecipanti.

Terapia. Immagine: © Lisa F. Young - Fotolia.com
Articolo consigliato: Le esperienze di rottura nel terapeuta e nel paziente.

L’Analisi Conversazionale si dedica esclusivamente allo studio dei significati che i partecipanti all’atto dialettico condividono, evitando di addentrarsi nelle interpretazioni ipotetiche che fanno riferimento ad interventi dall’alto del terapeuta, come ad esempio accade nei setting di impostazione psicodinamica. E’ il gioco interattivo fra clinico e paziente a definire il senso complessivo della conversazione e i significati locali che si esprimono con le singole mosse verbali e non verbali dei partecipanti. Il terapeuta conduce la seduta utilizzando un repertorio di interventi tecnici:

  • domande tematiche, con le quali non viene esternata alcuna ipotesi sul funzionamento del paziente ma semplicemente viene stabilito o proposto un ambito di pertinenza di eventuali domande successive; 
  • domande informative, con cui il clinico fa capire al paziente di aver formulato una tesi sugli accadimenti del suo mondo interno e la condivide con lui; 
  • domande di precisazione, utili per raccogliere maggiori informazioni sul tema che si sta trattando e per farsi descrivere dal paziente un quadro più approfondito delle sue esperienze; riassunti, mediante i quali il terapeuta riformula con parole proprie il racconto del paziente e si assicura di averlo compreso correttamente.

Ogni intervento terapeutico può naturalmente racchiudere più tipologie di domanda, ogni mossa può cioè avere una natura mista, oppure possiamo incontrare un contenuto ambiguo che verrà chiarito nei successivi scambi linguistici. La qualità e la funzione degli interventi terapeutici sono date anche dalla reazione del paziente, e allo stesso modo le affermazioni di quest’ultimo si collocano in un’area di significato che viene sempre negoziata col clinico; abbiamo perciò momenti informali o di ironia che alleggeriscono il peso emotivo dei contenuti precedenti, racconti molto lunghi del paziente che il terapeuta ascolta senza interrompere perseguendo l’obiettivo di favorire nell’interlocutore un distanziamento emotivo dai fatti narrati –il racconto e’ una forma narrativa che consente a chi la elabora di divenire in parte spettatore del proprio intreccio, con un conseguente aumento di risorse emotive e metacognitive fruibili per ristrutturare i significati – oppure conversazioni in cui si riflette su un tema di vita strutturante per il paziente.

In tutti questi scambi avviene una condivisione dello sfondo e delle finalità; in altri termini, terapeuta e paziente si accordano con modalità verbali e non verbali su quale sia lo scopo comunicativo di quella fase della seduta, e lo condividono. In altri casi invece il frame terapeutico, la cornice relazionale che secondo Goffman può essere colta rispondendo alla domanda “che cosa sa succedendo qui?” viene scelto e impostato dal clinico.

  • Possiamo individuare il frame “indovina il tuo segreto” nel quale il terapeuta si avvale della propria competenza su come e’ generalmente organizzata l’esperienza e cerca di guidare il paziente, che invece e’ competente sui contenuti dell’esperienza propria, verso la presa di consapevolezza di un meccanismo di funzionamento che il clinico già conosce o ipotizza.
  • Nel frame “verifica la mia ipotesi su di te” le prerogative di terapeuta e paziente appaiono più sfumate; il primo chiede al secondo una descrizione dei suoi stati interni, invitandolo a confrontarla con una tesi elaborata dal terapeuta sulla base della propria competenza, ma l’approccio e’ più dubitativo rispetto al precedente e il dialogo assume quasi il carattere di un confronto alla pari. 
  • Un terzo frame e’ quello dell’ “ornitorinco”, in cui da un lato sono rintracciabili, in momenti diversi, i due approcci appena enucleati, dall’altro vengono introdotti due elementi ulteriori, l’esercitazione terapeutica e l’inserto pedagogico. 
Quando la relazione terapeutica non cura: i Cicli Interpersonali. - Immagine: © Betacam-SP - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Quando la relazione terapeutica non cura: i cicli interpersonali.

Col primo strumento il terapeuta gestisce direttamente il comportamento del paziente, fornisce istruzioni e direttive precise – la cui funzione può essere spiegata – per modificare in seduta alcuni pattern emotivi e cognitivi problematici attraverso il ricorso ad esercizi concreti, verificabili nell’immediato; col secondo, il dialogo terapeutico si arricchisce di consigli, istruzioni e informazioni che il clinico trasmette al paziente utilizzando marcatori verbali, non verbali e paralinguistici, e nel corso di tale scambio il terapeuta assume una ben riconoscibile posizione di esperto, peraltro non dissimile dal ruolo carismatico che egli svolge allorché guida il paziente nell’esercitazione terapeutica. Appare chiaro come una delle tematiche di fondo della pratica clinica sia la capacità del terapeuta di curare le due dimensioni che Leonardi e Viaro (1990) hanno chiamato Principio di Normalità e Principio di Reticenza. Il primo afferma che il paziente porta all’attenzione del clinico esperienze comprensibili, orientate da scopi ed emozioni relazionali riconducibili all’universo della normalità umana; il secondo sottolinea l’opportunità di lasciare che la seduta si sviluppi intorno ai resoconti del paziente e alla conoscenza che egli ha di sé, mentre l’intervento del terapeuta e il suo parere di esperto possono rimanere marginali e manifestarsi a chiusura del dialogo. Quest’ultimo aspetto e’ centrale e la misura in cui viene applicato caratterizza sia lo stile del singolo terapeuta sia i tratti peculiari di una singola seduta.

 

La prossima settimana la SECONDA PARTE dell’articolo

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Si parla di:
Categorie
ARTICOLI CORRELATI
WordPress Ads
cancel