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Esercizi Comportamentali in Terapia Cognitiva

Gli esercizi comportamentali hanno valore come esposizione a nuove esperienze da cui imparare nuove informazioni e non come tentativi di instaurare nuovi riflessi comportamentali.

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 18 Giu. 2012

Aggiornato il 22 Apr. 2013 10:40

 

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Esercizi Comportamentali in Psicoterapia Cognitiva. - Immagine: © tiero - Fotolia.com

La terapia cognitiva-comportamentale (TCC) è, appunto, anche comportamentale. Talvolta alcuni terapeuti TCC sembrano trascurare la seconda parte del loro orientamento. Questo è parzialmente comprensibile: nella TCC l’intervento comportamentale è realmente subordinato a quello cognitivo. Infatti il cognitivismo clinico recupera il comportamentismo ma lo sottopone al paradigma dell’elaborazione mentale. Gli esercizi comportamentali, come l’esposizione, hanno valore come esposizione a nuove esperienze da cui imparare nuove informazioni e non come tentativi di instaurare nuovi riflessi comportamentali. Ogni esercizio comportamentale ha valore solo se discusso ed elaborato cognitivamente in seduta. Tuttavia subordinazione non deve diventare trascuratezza.

Gli esercizi comportamentali preferiti dal terapeuta TCC sono soprattutto di esposizione. Si tratta in fondo di ABC  in cui il paziente si sottopone volontariamente alla situazione problematica, allo stimolo A. Alcuni tipi di fobie si prestano particolarmente bene a questo tipo di esercizi. Sono quelli in cui l’esposizione alla situazione A è facilmente riproducibile, come in  casi di panico o fobia legati all’uso di mezzi di trasporto. Anche alcune fobie sociali sono facilmente riproducibili: il timore di mangiare in pubblico, ad esempio. Tuttavia non è sempre così. Quanto più la situazione sociale è sofisticata, tanto più diventa difficile ricrearla in un esercizio artificiale. Parlare in pubblico è una situazione che non può essere creata artificialmente. Occorre esplorare con il paziente quali saranno le prossime occasioni in cui sarà possibile prescrivere di esporsi. Ancora più difficile è affrontare timori di situazioni intime e confidenziali: timore di confidarsi con amici, timore di corteggiare una persona. Situazioni che vanno prescritte con delicatezza, tenendo conto che un eccesso di prescrizione potrebbe rendere l’esercizio troppo artificiale e perciò inefficace.

Un secondo tipo di esposizione è l’astensione da comportamenti di controllo. In questo caso quindi non  ci espone alle situazioni temute, ma si evita di mettere in atto i rituali ossessivi di controllo. Il terzo tipo di intervento comportamentale più usato dai terapeuti TCC è il rilassamento muscolare, che tratteremo a parte.

Ancora Disputing. - Immagine: © Albachiaraa - Fotolia.com
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La letteratura scientifica ci fornisce alcuni suggerimenti che dovrebbero rendere l’esposizione comportamentale più efficace. Si raccomanda un’esposizione intensa e quotidiana per almeno 30 minuti, e di valutare lo stato emotivo prima e dopo ogni esercizio con un scala da 0 a 100.

Fantasticare sulle conseguenze è una tecnica tra il comportamentale e l’immaginativo. Consiste nell’indurre il paziente ad immaginare le conseguenze di una certa situazione problematica, ed esporre le fantasie e le immagini riguardanti quella situazione. Laddove il paziente esprima delle fantasie realistiche il terapista ha la possibilità di indurre il paziente a ideare migliori strategie di padroneggiamento del pericolo temuto. Laddove invece il paziente produca delle fantasie irrealistiche, il terapeuta potrà utilizzare le tecniche di analisi delle evidenze e delle prove di fatto.

L’autoistruzione è una tecnica altamente direttiva, e richiede una elevata capacità retorica e persuasiva nel terapeuta. Si tratta di far notare al paziente che, solitamente, ciascuno di noi parla con se stesso, e che queste autoistruzioni hanno una influenza sul comportamento. Ognuno di noi ha quindi la naturale dote di dare a se stesso ordini, direttive, istruzioni, o altre informazioni necessarie a risolvere i vari problemi che si presentano. A questo punto si tratta di convincere il nostro paziente a darsi autoistruzioni alternative ai suoi pensieri disfunzionali automatici. Non sarà facile convincerlo della efficacia di questa operazione, che a prima vista potrà essere valutata come bislacca. Si può far provare al paziente direttamente in seduta l’efficacia di autoistruzioni positive, fargliele scrivere su carta, concordare momenti o orari prestabiliti, dei cerimoniali o dei riti che precedano l’autoistruzione. Soprattutto si tratta di far capire al soggetto che, come i pensieri automatici si sono cristallizzati fino ad apparire inamovibili, lo stesso si può fare con le autoistruzioni positive.

Lo stop del pensiero è, come le autoistruzioni, un impiego terapeutico della coscienza volontaria, delle cosiddette funzioni esecutive e deliberative della mente. Difficile da attuare, anche perché senza adeguata distrazione il soggetto tende a ricadere nei suoi pensieri automatici. Anche qui si possono introdurre dei rituali che accompagnino l’atto dello stop del pensiero. Ma soprattutto, occorre istruire il soggetto a riconoscere l’insorgenza dei pensieri disfunzionali. Una volta suonato il campanello di allarme, si deve stimolare nel paziente la consapevolezza che non è condannato a pensare quei pensieri negativi, che non ne è schiavo, e può fare altro. Infatti i pensieri disadattivi e disfunzionali hanno spesso un effetto a cascata per il soggetto. Un pensiero o una riflessione su un dato evento può partire come un qualcosa di inizialmente insignificante ma è in grado, se “lasciato libero”, di acquistare peso e forza. Una volta creati, questi processi disfunzionali hanno un tale impatto sull’individuo che può risultare difficile bloccarli.

Per fare questo il terapeuta può addestrare il soggetto a raffigurarsi in mente la parola “stop”, o assicurarla a un comportamento, un atto, come il rilasciare un elastico teso intorno al braccio, oppure può scriverla su un foglio e indicarla ed utilizzarla all’occorrenza nella seduta, oppure può attribuire il significato di “stop” ad un gesto che all’occorrenza può fungere da segnale per il paziente e un ausilio per lo stesso paziente a rafforzare il comando.

Naturalmente in terapia cognitiva non basta eseguire gli esercizi comportamentali con costanza e impegno. Ciò che è veramente importante è che in seduta essi siano sottoposti alla elaborazione cognitiva. L’obiettivo è che il paziente apprenda nuove informazioni durante l’esercizio, informazioni che facilitano l’intervento di decatastrofizzazione e sdrammatizzazione delle previsioni negative.

 

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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