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Antonio Semerari: Intervista sulla metacognizione e risposte a Giancarlo Dimaggio

METACOGNIZIONE - Incontrato per caso a Roma, Antonio Semerari commenta l'intervista a Giancarlo Dimaggio rilasciata su State of Mind.

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 29 Mag. 2012

Aggiornato il 02 Ago. 2012 10:47

 

Antonio Semerari: Intervista sulla metacognizione e risposte a Giancarlo DimaggioLa comunità dei terapeuti cognitivi italiani è un gruppo di dimensioni ancora umane, se ancora mi consente di incontrare Antonio Semerari a Roma e sorprendermi ad ascoltarlo mentre al bar, prendendo un caffè con me, riflette ad alta voce e criticamente sull’intervista che Giancarlo Dimaggio ha rilasciato a State of Mind sul modello metacognitivo e interpersonale, modello che è stato sviluppato dagli anni ’90 in poi dal gruppo di clinici/ricercatori del Terzo Centro di Terapia Cognitiva di Roma.
Gli propongo immediatamente di trasformare queste sue considerazioni vaganti in un’amichevole intervista, dandogli la possibilità di comunicare i suoi pensieri a tutti noi. Terminiamo il caffè e ci avviamo lungo la via degli Apuli a Roma, davanti alla Facoltà di Psicologia dell’Università.

 

Ruggiero: Cosa non ti ha convinto nell’intervista a Dimaggio?

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Semerari: Mi sembra che Giancarlo confonda tre concetti diversi: uscita dal ciclo interpersonale, utilizzo del ciclo in diverse fasi della terapia e generalizzazione del ciclo per spiegare al paziente che se la và a cercare e a tutto questo contrappone l’interpretazione basata sullo schema interpersonale. Vediamo di capirci. Ciclo interpersonale si riferisce ad un concetto relazionale mentre lo schema è, come ovvio, un concetto intrapsichico. Fin qui tutto è chiaro. Dalle parole di Giancarlo, però, sembra che per uscire dal ciclo e per utilizzarlo precocemente in terapia bisogna dire al paziente: “Vede quello che è successo tra noi? Questo è quello che le capita con altri“. Siccome naturalmente non è così allora forse bisogna lasciar perdere di lavorare sul superamento dei cicli in fase precoce e concentrarsi sull’intrapsichico, ovvero lo schema.

 

Ruggiero: Però comunicare al paziente un suo ciclo interpersonale disfunzionale potrebbe realmente colpevolizzarlo.

Semerari: Per questo sto dicendo che si fa confusione. Un ciclo interpersonale è un processo relazionale in cui i due partecipanti sono spinti ad agire in modo da rinforzare la patologia di uno dei due. In quanto processo relazionale, quindi, cessa quando uno dei due non ha più questa tendenza d’azione. Non c’entra niente con quello che si dice al paziente. Il terapeuta esce dal ciclo con operazioni di disciplina interiore e passa da una posizione relazionale problematica ad una empatica. Si esce dal ciclo pensando, prima di aver detto qualcosa al paziente. Cosa dire è il problema che viene dopo. Ma uscire dal ciclo nel senso delle operazioni di disciplina interiore è un passaggio cruciale e prioritario che permette al terapeuta di ragionare in modo costruttivo sul caso.

 

Ruggiero: Facciamo un esempio.

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Semerari: Prima dell’esempio affrontiamo il problema dell’utilizzo precoce dei cicli. I cicli non sono solo un guaio, sono una grande occasione terapeutica, direi un’occasione per la mente del terapeuta. Per spiegarlo introduciamo un concetto semplice semplice, caro a Weiss e a Ryle, quello di reverse. Che cosa fa un paziente con scarse capacità relazionali che si aspetta che l’altro faccia qualcosa di negativo al sé? La soluzione più semplice è quella di rovesciare i ruoli. Avendo una rappresentazione di ruolo rigida, se non vede alternative è meglio che sia l’altro a stare nella posizione più scomoda. Ma provando a metterci nella posizione scomoda, agendo il reverse, ci fa sentire, ci fa provare un assaggio di come si sente, o teme di sentirsi, nella relazione. In questo modo, però ci permette di andare oltre la semplice comprensione cognitiva. Ci fa esperire un assaggio di qual è la sua esperienza delle relazioni. Capisci il paradosso? Un ciclo interpersonale all’inizio ci pone in posizione negativa, ma se sappiamo sfruttarlo ci fa toccare il massimo di empatia: ci sentiamo in modo simile al paziente. E’ questo il principale vantaggio del ciclo. Metti il borderline che ti attacca accusandoti di essere una persona sbagliata. Tu provi un insieme confuso di emozioni e pensieri. Un po’ ti senti in colpa e indegno, in più sei furioso col paziente. Pensi che sia un paziente sbagliato che pone ostacoli e accusa ingiustamente il terapeuta. Ma se uno dei due è sbagliato la relazione non va e ti senti quasi trascinato a distruggerla mentre, contemporaneamente senti che ti dispiace. Stai vivendo una relazione come la vivono i pazienti borderline. Puoi leggere molti libri, ma difficilmente capisci di più i borderline come in quel momento.

 

Ruggiero: Cosa diresti al paziente?

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Semerari: Ma non si tratta di dire, ma di pensare e capire, di monitorare. Una volta raggiunta la posizione empatica è possibile parlarne con tranquillità con il paziente da un punto di vista terapeuticamente vantaggioso. Certo, occorre misurare le parole. Il processo di ragionamento è semplice. A parità di condizioni, il focus dell’intervento è sul problema attivo in quel momento, di cos’altro vuoi parlare? Se c’è un ciclo vuol dire che è attivo un tema relazionale problematico. Pensa ad un paranoico che, in prima seduta, ti scruta, ti osserva e ti da quella sensazione Kafkiana di accusa inespressa e di controllo oppressivo. Quanto tempo metterai a far porre al paziente tutto questo in termini di discorso? Eppure ti ha fatto capire subito come si sente. Cosa vuoi dirgli? Lei ha uno schema di sospettosità? Lei sospetta di me e io di lei? O piuttosto partire da ciò che hai provato, l’angoscia delle relazioni e il desiderio di relazioni chiare e trasparenti e muovere in questa direzione il colloquio.

 

Ruggiero: Insomma, cosa rimproveri a Dimaggio?

Semerari: Direi un eccesso di platonismo. Tutto si muove nel mondo delle idee, in questo caso degli schemi. Ma un disturbo di personalità si mantiene non perché ci sono idee radicate, ma perché queste idee creano un ambiente favorevole al loro mantenimento, relazioni confermanti i loro presupposti.

 

Così si conclude la conversazione con Antonio Semerari. Il buon vecchio cognitivismo italiano ha ancora questa passione per la riflessione peripatetica, a passeggio tra clinica e teoria per le strade di Roma.

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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