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Psicologia del Lutto #2: Angoscia, Meccanismi di Difesa e Comunicazione.

Psicologia del Lutto - Angoscia di morte e meccanismi di difesa dentro un'Area Illusionale. Il ruolo della Speranza e della Comunicazione.

Di Serena Mancioppi

Pubblicato il 12 Apr. 2012

Aggiornato il 10 Lug. 2013 11:06

Parte #2: Angoscia di morte, malattia e meccanismi di difesa

Psicologia del Lutto #2: Angoscia, Meccanismi di Difesa e Comunicazione. - Immagine: © olly - Fotolia.comDiversi autori (Kubler-Ross, 1976; Zapparoli e Adler Segre, 1997; Biondi G., Rossi A., Donfrancesco A., 2001; Ferro, 1986; Rubbini Paglia e Di Giovanni, 2001; Soccorsi, Lombardi, Rubbini Paglia, 1984; Soccorsi, 1986; Soccorsi, Di Giovanni, Ruggiero, Rubbini Paglia, 2001; Bowen, 1979) che nel loro percorso professionale si sono trovati a lavorare con malati terminali o comunque con situazioni ad alto rischio di morte, hanno evidenziato in chi è malato, nei suoi familiari e nel personale medico, la mobilizzazione di meccanismi di difesa, che possono essere più o meno funzionali rispetto alla situazione da affrontare e più o meno rigidi rispetto alla possibilità di un cambiamento evolutivo.

La difesa forse più radicale all’idea della propria morte è la psicosi; secondo Zapparoli (1997) “la psicosi stessa è alla base dell’illusione di immortalità […] la psicosi garantisce l’immortalità, poiché permette loro [ai morenti] di vivere una condizione di eccezionalità, di diversità dagli altri; permette di conseguenza di raggiungere la sicurezza di avere una diversità anche nel senso di non condividere con il resto dell’umanità il destino comune di invecchiare e morire. La “normalità” invece è connessa all’essere mortali”.

Accettazione del Lutto. - Immagine: © bruniewska - Fotolia.com
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La costruzione di una “personale” realtà psicotica permette l’illusione dell’allontanamento dalla condizione “collettiva” del resto dell’umanità. Anche Searles (1965) sottolinea come la ricerca dell’illusione di immortalità sia una costante nelle produzioni psicotiche: l’illusione di immortalità permette allo psicotico di non affrontare la realtà che la vita è per sua natura legata alla morte.

Da questo punto di vista ciò che accomuna i pazienti psicotici alle persone morenti è il comune bisogno di una difesa in termini di illusione, per non vivere emotivamente panico e terrore di fronte ai propri limiti. Il passaggio da momenti di profonda consapevolezza della malattia e della morte imminente è spesso alternato a momenti in cui questa consapevolezza viene persa grazie allo sviluppo di quella che Zapparoli e Serge chiamano “area illusionale”. L’area illusionale è uno spazio mentale ed emotivo nel quale è possibile, nonostante l’approssimarsi della fine, attingere a fantasie che permettano di continuare ad elaborare aspetti vitali e costruttivi dell’esistenza. Lo sviluppo di questa area illusionale permette di evitare l’impatto diretto con l’idea della morte mediando tra due componenti: quella che sa che la morte è imminente e quella che si illude di avere ancora tempo di vivere e fare le cose che non ha fatto in passato. L’area illusionale diviene il mezzo con cui l’individuo può accettare di identificare le sue risorse per trascorrere il tempo che rimane nel modo più costruttivo; allo stesso tempo è uno dei mezzi più efficaci per aiutare chi sta morendo ad accettare il limite del proprio essere “finito”. Aggiungendo una realtà extracorporea, trascendendo la realtà costituita dalla fisicità, si arricchisce l’esistenza di una dimensione di cui fanno parte tutti gli elementi che da sempre aiutano gli uomini ad affrontare le difficoltà della realtà.

Lo sviluppo di un’ area illusionale sostitutiva appartiene all’area della patologia e solitamente il lavoro terapeutico è volto a ridurla per favorire un maggiore contatto con la realtà; con i pazienti terminali, in certe fasi, è necessario ribaltare questo rapporto e considerare la possibilità di utilizzare l’illusione come realtà sostitutiva di certe gratificazioni al momento impossibili, allo scopo di minimizzare e ridurre gli aspetti angosciosi e terrifici della realtà legata alla morte. La differenza rispetto alla patologia è che si tratta sempre di un area parziale, nel senso che è sempre presente anche un esame di realtà e non compare mai la comunicazione delirante dello psicotico.

Anche Kubler-Ross (1976) mette in evidenza come la possibilità di mantenere una speranza fino alla fine sia un elemento fondamentale nel processo di pacificazione con la morte. In particolare l’autrice sottolinea un duplice aspetto legato alla speranza: se da un lato è fondamentale che i pazienti possano conservare, finché ne hanno bisogno, la speranza che possa succedere qualcosa di imprevisto, che possano avere una remissione clinica o che possano vivere più a lungo del previsto, dall’altro, quando il paziente stesso è pronto a morire, è per lui fonte di grande angoscia l’incapacità dei familiari di accettare questo fatto e il loro attaccarsi disperatamente alla speranza.

Bambini nel tempo: Comunicare la Malattia e l' Accudimento Invertito. - Immagine: © 1998-2012 Hoepli Editore. Immagine Riprodotta su gentile concessione dell'Editore.
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Riuscire a rispettare i tempi e i bisogni di chi sta morendo è sicuramente uno degli aspetti più importanti del lavoro con i malati terminali e in generale del rapporto tra queste persone e chi gli sta vicino. A tal proposito è interessante notare come il processo di elaborazione del lutto sia simile in chi ha subito la perdita di qualcuno e in chi sa di approssimarsi alla fine. In entrambe le situazioni si passa attraverso una serie di fasi nelle quali si susseguono e intervallano rifiuto, incredulità, rabbia, invidia, depressione, fino a giungere, seppur non sempre, all’accettazione della morte. (Bowlby, 1979; Kubler-Ross, 1976; Zapparoli e Adler Segre, 1997)

Saper riconoscere le varie fasi del percorso verso la morte e sapere ascoltare e accogliere sentimenti di rifiuto della realtà della morte, di rabbia per quelli che non devono affrontare la fine, di invidia per i sani e di tristezza al pensiero di dover lasciare tante persone e luoghi cari, è l’unico modo per essere veramente di aiuto a chi si accinge ad intraprendere un percorso che nel migliore dei casi lo porterà all’accettazione del destino di morte.

La libertà di comunicare pensieri, emozioni, sentimenti e fantasie alle persone vicine è una caratteristica di quelli che Bowen (1979) chiama “sistemi aperti”. Al contrario un “sistema di comunicazione chiuso” è un “riflesso emotivo automatico per cui ciascuno si protegge dall’ansia presente negli altri” evitando di affrontare argomenti e di esprimere sentimenti o fantasie potenzialmente angosciose. La morte è il principale argomento tabù: al processo intrapsichico, per cui c’è un certo diniego della morte in ognuno, si aggiunge il “sistema chiuso”, per cui le persone non possono comunicare i loro sentimenti senza turbare gli altri.

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Intorno alla persona con una malattia terminale ruotano, secondo Bowen, tre sistemi chiusi: il primo agisce all’interno del paziente e ha a che fare con la profonda consapevolezza della propria morte imminente, consapevolezza che quasi sempre il morente ha ma che tuttavia spesso non comunica a nessuno; la famiglia amplifica questa incomunicabilità distorcendo e reinterpretando tutte le informazioni fornite dal medico, così che spesso si crea un alone di mistero attorno alla natura della malattia e al suo decorso, mistero che naturalmente incrementa sia il livello di ansia, che la possibilità di affrontarla; il terzo sistema chiuso è quello del medico curante e del personale medico che è un sistema di comunicazione basato su dati medici, tanto più incomprensibili per la famiglia tanto più vengono usati del medico stesso per gestire la sua emotività e la sua angoscia.

Perché il sistema di comunicazione rimanga aperto e al suo interno sia possibile condividere emozioni, vissuti e dati di realtà, per poter “morire con il paziente” (Eissler, 1995), il presupposto è la consapevolezza intellettuale e l’accettazione emotiva che la morte è una condizione universale: accettare che la morte esiste come parte della vita e come suo punto finale ci mette di fronte a un limite, che è sia il limite di fronte al quale ci pone chi sta morendo, cioè ciò che possiamo fare per lui in quel momento, sia il limite di quello che potremo fare per noi stessi quando vivremo la stessa condizione.

È la presenza della morte nel nostro futuro il dato di realtà che ci rende possibile annullare l’elemento di fondo di disuguaglianza con la persona che sta morendo e stabilire un rapporto di ascolto e di aiuto che non risenta della sovrapposizione di nostri meccanismi di difesa e negazione.

Nel prossimo articolo verrà affrontato il tema dei meccanismi di difesa che l’intero nucleo familiare mobilita quando si ammala un bambino.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Biondi G., Rossi A., Donfrancesco A. (2001) Il paziente terminale in età pediatrica, la sua famiglia, lo staff, quale interazione? Informazione psicologia, psicoterapia, psichiatria. Anno 12, 43: 50-55
  • Bowen M. (1979) Dalla famiglia all’individuo. Astrolabio, Roma
  • Eissler K.R. (1995) The psychiatrist and the dying patient. International University Press, New York.
  • Kubler-Ross E. (1976) La morte e il morire. Cittadella Editrice, Assisi.
  • Rubbini Paglia P., Di Giovanni S. (2001) Relazione d’aiuto e accompagnamento alla morte al bambino oncologico e alla sua famiglia. In-formazione psicologia, psicoterapia, psichiatria. Anno 12, 43: 56-59.
  • Searles H.F. (1965) Scritti sulla schizofrenia. Bollati Boringhieri, Torino, 1974.
  • Soccorsi S. (intervista a) (1986) Il bambino e il tumore: l’esperienza di una terapeuta sistemica. Ecologia della mente, 1: 4-12.
  • Soccorsi S., Di Giovanni S., Ruggiero A., Rubbini Paglia P. (2001) Percorso della famiglia tra appartenenza e separazione dal centro oncologico. Acta med. Rom., 39:82-86-
  • Soccorsi S., Lombardi F., Rubbini Paglia P. (1984) La famiglia come risorsa nel trattamento del bambino oncologico. Terapia Familiare, 16: 47-66.
  • Soccorsi S., Rubbini Paglia P. (1989) La malattia oncologica del bambino come incidente evolutivo della famiglia. Terapia familiare, 29: 5-15.
  • Zapparoli G.C. & Adler Segre E. (1997) Vivere e morire. Un modello di intervento con i malati terminali. Campi del Sapere, Feltrinelli, Milano.
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Serena Mancioppi
Serena Mancioppi

Psicologa Psicoterapeuta Sistemico Relazionale e Cognitivo-Evoluzionista

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