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Sinfonia d’autunno: Bergman ci insegna la ciclicità delle emozioni.

Psicologia & Cinema: quello di Bergman è un dipinto intenso e lucidissimo del rapporto conflittuale tra una madre e una figlia.

Di Camilla Marzocchi

Pubblicato il 21 Mar. 2012

Aggiornato il 02 Feb. 2015 11:53

 

Sinfonia d'Autunno: Bergman ci insegna la ciclicità delle emozioni. - Immagine: Poster Cover from 1978 Movie: Autumn SonataArrivo forse un po’ in ritardo ad innamorarmi di “Sinfonia d’autunno”, film del 1978 scritto e diretto da Ingmar Bergman. Un dipinto intenso e lucidissimo del rapporto conflittuale tra una madre e una figlia, in grado di toccare emozioni e antiche sensazioni in chi osserva scorrere il racconto.

In “Sinfonia d’autunno” vengono descritti quelli che, meno poeticamente, siamo abituati a chiamare in clinica cicli interpersonali problematici (Dimaggio, Semerari, 2003) e Bergman riesce con invidiabile dettaglio a dare vita a pensieri, emozioni e comportamenti che in alcuni casi difficilmente risultano altrettanto chiari e limpidi a noi terapeuti.

La storia narra dell’incontro tra una madre (Charlotte) e una figlia (Eva), che dopo sette anni di lontananza si ritrovano, cariche di aspettative ed entusiasmo, nel tentativo di recuperare una vicinanza persa da tempo e mai più cercata.

Ingrid Bergman (la madre) veste i panni di un’affermata pianista, concentrata sulla carriera e sicura di sé, assente in famiglia, nevrotica ed egocentrica quando presente e terrorizzata dalla vicinanza fisica dei suoi affetti più cari. Le emozioni vivono per lei solo nella musica e la sua gelida storia di attaccamento non sembra lasciarle scampo: nello spazio libero dai suoi concerti dominano confusione, senso di costrizione e un irrefrenabile desiderio di fuggire. Nessuna macchia sembra però accettabile nella sua vita perfetta e riesce a salvare se stessa recitando il ruolo di madre amorevole, dalla voce calda e accogliente, dedita alla famiglia e costretta suo malgrado lontana da casa per lavoro.

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A raccogliere i cocci della famiglia insieme al papà, c’è la figlia maggiore Eva (Liv Ullmann): fragile, impacciata, nascosta dietro grandi occhiali da vista, persa in un mondo di fantasia e misticismo, incapace di sentire emozioni autentiche e che recupera una sua identità nell’accudire gli altri e nell’amore del marito per lei. L’ammirazione infantile per la madre, si scontra per tutta la vita con il terribile vuoto lasciato dalle sue improvvise assenze, descritto come “paura di non sopravvivere”, “paura di smettere di respirare”, “di non esistere più”, a segnalarne la gravità e l’urgenza. Del resto i ricordi legati alla sua presenza non appaiono in alcun modo rassicuranti: la struggente visione di lei bambina, inginocchiata e adorante ai piedi della madre che legge il giornale seduta in poltrona e indifferente alla sua presenza, prepara il terreno all’impotenza e alla rabbia che vedremo esplodere di lì a poco.

Il loro incontro, con cui il film ha inizio, appare carico di affetto sincero e buone intenzioni: le lettere della figlia hanno finalmente ricevuto risposta e la madre sembra cambiata, più emotiva e vicina. Eva allora gioca il ruolo abituata ad assumere ogni volta che mamma tornava a casa, servizievole accudente e attenta ai suoi bisogni e umori, mentre Charlotte si lancia in atteggiamenti materni ‘da manuale’ e riesce a mantenere la sua integrità narcisistica, godendo ancora una volta dell’ammirazione concessa. I reciproci equilibri si sgretolano però rapidamente e in fulminei scambi di battute e sguardi il ciclo interpersonale invalidante si attiva, forte e ineludibile: ai primi segnali di egocentrismo e critiche pungenti della madre, l’atteggiamento sottomesso di Eva si trasforma in accusa spietata, disperata e colpevolizzante per l’antico abbandono.

Rabbia e amore si alternano in modo caotico, vicinanza e distacco lottano instancabili. Eva ha uno sguardo diverso da quello che conoscevamo fino ad un attimo prima, ora è cupo e minaccioso, mentre Charlotte ha perso il suo charme, appare congelata e incapace di assorbire il suo dolore. Solo alle fine concede alla figlia una lacrima, che racchiude in sé la speranza sempre viva in Eva di una sincera comprensione….e, perché no, di un cambiamento.

La tempesta finisce all’alba, ma nessuna delle due ha ormai le forze per affrontare le colpe urlate.

Solo alla fine tornano in mente le buone intenzioni iniziali, ma ormai l’automatismo degli antichi schemi interpersonali le ha sommerse fino a farle sparire. La vicinanza è di nuovo compromessa e rende necessario un nuovo (l’ennesimo!) distacco, tremendo e silenzioso: tornano per Eva la paura di non respirare e per Charlotte il suo mondo gelido e perfetto.

Il ciclo interpersonale ahimè si chiude, ma Bergman ci lascia con un ultimo e illuminante sguardo al futuro: Eva recupera i suoi grandi occhiali e scrive una lettera di scuse a mamma.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Dimaggio, G., Semerari, A. (2003). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Editori Laterza
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