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Le canzoni nei giardini che nessuno sa. – Gruppo di Ascolto Musicale in Ospedale.

Relazione sul gruppo di ascolto ispirato al modello di Postacchini con i pazienti ricoverati presso l’Ospedale Privato Villa Igea di Modena.

Di Gaspare Palmieri

Pubblicato il 13 Mar. 2012

Aggiornato il 16 Ott. 2012 17:26

 

Quel dolore che non sai cos’è, valigie vuote da un’eternità, tanti viaggi rimandati e già, solo lui non ti abbandonerà mai.
[Nei giardini che nessuno sa, Renato Zero, 1994]

 

Le Canzoni nei giardini che nessuno sa. Gruppo di Ascolto Musicale in Ospedale. -  Immagine: © spiral - Fotolia.com Da tre anni tengo settimanalmente un gruppo di ascolto della durata di un’ora con i pazienti ricoverati nel reparto dove lavoro presso l’Ospedale Privato Villa Igea di Modena. L’esperienza di ascolto di canzoni nel nostro reparto è successiva a quella del Dr. PierLuigi Postacchini, neuropsichiatria infantile e musicoterapeuta, che ha tenuto per anni gruppi simili nel reparto doppia diagnosi e al Day Hospital di Villa Igea. Nell’impostare il gruppo mi sono ispirato al modello di Postacchini (Postacchini et al, 1997), seppure con qualche modifica.

I pazienti che partecipano sono affetti prevalentemente da disturbi affettivi (depressione maggiore, depressione bipolare, disturbo schizoaffettivo), disturbi della personalità (in particolare del cluster B) e alcolismo. Occasionalmente partecipa anche qualche paziente affetto da psicosi.

La partecipazione al gruppo viene consigliata dall’equipe di medici e psicoterapeuti, come quella agli altri gruppi (skill training, mindfullness, rilassamento, gruppi psicoeducativi sull’abuso di alcol e sostanze), che costituiscono un percorso clinico di trattamento dei disturbi affettivi e della personalità della durata media di quattro settimane.

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Ascoltiamo prevalentemente canzoni italiane che scelgo io, ma i pazienti possono proporre dei brani (anche se non è così frequente che un paziente ricoverato abbia con sè in ospedale la propria musica preferita). In ogni incontro vengono ascoltate generalmente tre canzoni.

Durante l’ascolto viene richiesto ad ogni paziente di compilare una apposita scheda, una sorta di scheda ABC musicale, in cui sono elencate diverse emozioni e la loro intensità secondo una scala di Likert (1932) a cinque modalità di risposta (per nulla, poco, abbastanza, molto, moltissimo). La scheda comprende anche uno spazio libero per segnare pensieri, emozioni e immagini.

Ho ritenuto di utilizzare tale strumento durante l’ascolto per favorire l’individuazione e il riconoscimento degli effetti dell’ascolto del brano e anche per favorire la concentrazione sulla musica. Il fatto di dover scrivere e di avere un piccolo compito da fare diminuisce i commenti e la comunicazione tra i pazienti durante l’ascolto. Alla fine di ogni brano ogni partecipante legge quello che ha scritto e segue una discussione di gruppo.

Uno dei pazienti, a turno, viene incaricato di redigere una sorta di cronaca della seduta segnando le canzoni che vengono ascoltate e i commenti di ognuno, leggendoli la volta successiva, in modo tale da dare una continuità all’esperienza.

La partecipazione al gruppo è stata caratterizzata fin da subito da un certo entusiasmo, sicuramente da addebitare alla presenza della musica, che è come se infondesse vitalità all’ambiente ospedaliero e al difficile percorso di cure. L’idea che si possano ascoltare canzoni in un luogo di cura crea in molte persone aspettative positive, piacevoli e quasi ludiche.

Alcuni pazienti, particolarmente inibiti e coartati emotivamente, in particolare quelli affetti da psicosi, si attivano durante il gruppo, mostrando una vitalità che difficilmente ho notato in altri momenti del ricovero. Questo effetto rivitalizzante l’ho notato soprattutto con l’ascolto dei brani dei cantautori italiani classici (De Andrè, Guccini, De Gregori). Questo potrebbe essere dovuto al fatto di ricordare con nostalgia momenti del passato, magari di un passato in cui la malattia non c’era ancora e si era più giovani e spensierati.

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Una delle finalità principali del gruppo è l’allenamento al riconoscimento delle proprie emozioni, una sorta di “palestra del sentire”.

Dagli anni sessanta la ricerca sulle emozioni nella musica ha avuto un fervido sviluppo, arrivando perfino a utilizzare programmi al computer che permettevano di misurare le modificazioni temporali delle emozioni che avvengono durante l’ascolto di un brano (Sloboda, Juslin, 2001).

Come è ben noto spesso i pazienti affetti da gravi disturbi di personalità e da schizofrenia presentano difficoltà costanti in specifiche funzioni metacognitive. Per funzioni metacognitive si intendono tutte quelle abilità che consentono alle persone di attribuire e riconoscere stati mentali in sé e negli altri a partire da espressioni facciali, stati somatici, comportamenti e azioni; di riflettere e ragionare sugli stati mentali e di utilizzare le informazioni sugli stati mentali per decidere, risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali e padroneggiare la sofferenza soggettiva (Semerari et al., 2005; Gold et al., 2012).

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Durante il gruppo i pazienti riportano sulla scheda pensieri, emozioni ed immagini che emergono durante l’ascolto personale e, fatto altrettanto importante, hanno un’occasione anche per ascoltare i vissuti degli altri di fronte allo stesso stimolo. Si allenano a mettersi nei panni degli altri ad ascoltarne, capirne e rispettarne il punto di vista, in un atteggiamento che favorisce la mentalizzazione degli stati d’animo. Una delle consegne che vengono date prima dell’ascolto è che non c’è mai niente di giusto o sbagliato nell’effetto che il brano ha sulle persone. Questo per evitare frustrazioni o atteggiamenti compiacenti di persone che vorrebbero più fornire un’interpretazione del brano in un tentativo di razionalizzazione, piuttosto che raccontare in che modo il brano li ha toccati in modo personale.

Il gruppo consente inoltre di raccogliere in modo “indiretto” informazioni preziose sulla storia e sulla vita psichica dei pazienti, che magari non emergono direttamente durante il colloquio e che comunque potrebbero rivestire una certa importanza.

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Ad esempio ricordo un paziente affetto da disturbo della personalità borderline e poliabuso di alcol e sostanze, ricoverato per ripulirsi e per valutare se intraprendere un impegnativo percorso di comunità, durante l’ascolto di Andrea (1978) di De Andrè (non certo un inno agli eccessi) ha segnato come immagine quella di un gin tonic in quanto la canzone gli ricordava un periodo di particolari festini, accompagnata da emozioni di estasi, piacere, gioia. Inutile dire che alla scadenza del ricovero la sua decisione è stata quella di tornare a usare alcol e sostanze. Come diceva il saggio “la musica non mente mai”.

In un’altra occasione è capitato di ascoltare “Il Cielo” (1977) di Renato Zero e un giovane paziente affetto da una grave forma di psicosi paranoide ha mostrato una forte reazione di omofobia nei confronti del brano e del cantante. Sicuramente se fosse stato presente uno psicanalista si sarebbe sbizzarrito in gustose interpretazioni!

Quando si ascolta una canzone, infatti, l’attenzione non è solo diretta all’opera, ma spesso viene preso in considerazione anche l’autore, con la sua storia, con ciò che rappresenta a livello sociale e anche con le sue caratteristiche (o talvolta problematiche) psicologiche. Molte persone si identificano nei cantanti, li prendono come modello, vorrebbero imitarli. L’analisi di questi fenomeni può aiutare ulteriormente la comprensione dell’utente da parte del terapeuta.

Emblematico è il caso di Vasco Rossi che per tanti anni ha rappresentato il simbolo della trasgressione e della ribellione, della vita spericolata, in cui volendo si possono ritrovare alcuni aspetti tipici del disturbo di personalità borderline. Lavorando con diversi pazienti doppia diagnosi (alcolisti o con pregresso uso di sostanze) ho avuto diversi dubbi circa l’opportunità di inserire Vasco Rossi nella playlist, con il timore di un possibile effetto di incoraggiamento dei comportamenti di abuso. In realtà ascoltando l’ultima produzione di Vasco sono rimasto colpito dall’evoluzione del personaggio verso una dimensione più saggia e riflessiva. Una canzone che ascoltiamo spesso è “Il mondo che vorrei” (2008) che recita “Non si può fare quello che si vuole, non si può spingere solo l’acceleratore”. Un bel cambiamento da “Vado al massimo” (1982) o da “Fegato spappolato” (1984). D’altra parte è stato provato come certi tratti borderline siano destinati a smussarsi con gli anni (Venturini et al., 2011). Il Vasco Rossi saggio è indubbiamente una grande sorgente di speranza. Per tutti.

 

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