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Musica & Terapia: “La prossima volta porti la chitarra” – Un caso Clinico.

Come la musica ha aiutato l'andamento della terapia settimanale con J. un uomo di mezza età ricoverato per un grave tentativo autolesivo.

Di Gaspare Palmieri

Pubblicato il 28 Feb. 2012

 

Musica & Terapia: "La prossima volta porti la chitarra". - Immagine: © RA Studio - Fotolia.com La musica e le canzoni hanno fatto da sottofondo al lavoro psicoterapico settimanale della durata di un anno con J., uomo di mezza età sposato con due figlie maggiorenni, inviatomi in cura dopo un ricovero in ambiente psichiatrico per un grave tentativo autolesivo tramite abuso di psicofarmaci. Per J., a cui durante il ricovero era stato diagnosticato un disturbo di personalità narcisistico, era il secondo tentativo autolesivo.

Il primo era avvenuto due anni prima per svenamento. J. lavorava come paramedico, categoria professionale notoriamente ad alto rischio di suicidio sia per il possibile burnout, che per la disponibilità di mezzi autolesivi (Meltzer, 2008). Entrambi i tentativi avevano un forte carattere autolesivo, in quanto avvenuti in solitudine, senza preavviso e con mezzi potenzialmente letali.

Il mio Psicoterapeuta suona il Rock! - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com -
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I problemi del paziente erano insorti tre anni prima quando aveva perso entrambi i genitori in pochi mesi e successivamente era entrato in una profonda crisi di coppia con la moglie, in seguito alla scoperta di un tradimento di lui avvenuto due anni prima. In realtà non era il solo tradimento. La coppia non aveva rapporti sessuali da quasi vent’anni ma aveva trovato una sorta di equilibrio in altri aspetti del rapporto: l’educazione delle figlie, i viaggi, la casa delle vacanze, le uscite con gli amici. Dopo la scoperta del tradimento, la moglie l’aveva cacciato di casa e lui era andato a stare nella casa vuota dei genitori, piena di ricordi, non solo piacevoli. Il clima famigliare veniva infatti descritto dal paziente come gelido da un punto di vista emotivo, caratterizzato da un grande contegno. Il paziente non ricordava che la madre gli avesse mai fatto una carezza o una coccola, ma sottolineava che i genitori fossero comunque stati attenti ad altri suoi bisogni più materiali.

La saggezza del Rock' n' roll. - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com
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Il ritorno nella casa dei genitori era stato drammatico in quanto il paziente, terminato l’orario di lavoro si chiudeva dentro al buio, in un profondo stato depressivo. Mostrava una forte ambivalenza nei confronti della moglie e provava forti sentimenti di fallimento rispetto al “progetto famiglia”. C’erano momenti di avvicinamento tra i due, a cui seguivano improvvise rotture dovute a scoperte da parte della moglie di nuove frequentazioni del marito. Una di queste frequentazioni aveva una forte connotazione patologica in quanto era con una giovane paziente affetta da una malattia terminale che J. aveva conosciuto sul lavoro. Dietro alla sua giustificazione “E’ il solo tipo di relazione che potevo concepire perché sapevo che era a termine”, c’era un preoccupante bisogno di contatto con l’esperienza della morte, che poi si concretizzò nei due tentativi autolesivi. C’era anche una particolare spinta filantropica in J. in quel periodo, che si manifestava con continui gesti altruistici diretti verso gli sconosciuti, mentre emergeva fortissima la difficoltà a manifestare affetto verso i propri famigliari, figlie comprese. In quel periodo era anche arrivato a pensare di partire come volontario per una missione umanitaria, in una sorta di slancio di “narcisismo filantropico”.

 

J. era dotato di una personalità eclettica, suonava la chitarra e il pianoforte e cantava. In passato aveva allestito diversi spettacoli teatrali su tematiche sociali e aveva una grande passione per la musica d’autore italiana. I nostri primi incontri furono molto difficili in quanto J. mostrava una certa sfiducia nei confronti della terapia. Tra il primo e il secondo tentativo di suicidio aveva fatto un percorso psicoterapico di otto mesi con un collega che non aveva portato particolari benefici.

Sentivo da parte di J. un atteggiamento di distacco e di sufficienza rispetto ai nostri incontri che mi preoccupava, anche perché il fantasma del suicidio continuava ad aleggiare sulla terapia. Mi consultavo spesso con la collega del Centro di Salute Mentale che lo vedeva mensilmente per la terapia farmacologica (uno stabilizzatore dell’umore), che non sortiva particolari effetti.

J. rimaneva sospeso nel dubbio se tornare con la moglie e riparare il fallimento famigliare, ma ogni volta che provava a riavvicinarsi, in modo perverso, infieriva sadicamente su di lei. Viveva da solo, ma aveva lasciato tutti i vestiti e gli oggetti personali a casa della famiglia. Viveva da single, ma non pensava assolutamente a separarsi. In quel periodo era salvato dal lavoro che svolgeva sempre con passione, ma si sentiva talmente solo che mi chiese di trascorrere le due settimane di vacanza ricoverato nella clinica dove lavoro e io interpretai questa richiesta come un fatto positivo, preventivo rispetto ad ulteriori agiti.

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La situazione era decisamente bloccata e dopo il ricovero decisi di consigliare qualche seduta di terapia di coppia da una collega, con l’obiettivo di fare chiarezza sulla situazione. Alla seconda seduta la moglie quasi aggredì fisicamente il marito di fronte alla terapeuta e questa esplosione di rabbia servì ad allontanare definitivamente i due. Era evidente che non c’era spazio per un riavvicinamento. Dopo un ulteriore periodo di malessere, seguito alla presa di consapevolezza dell’allontanamento definitivo della moglie, cominciò la lenta risalita.

La fase successiva della terapia fu il recupero graduale del rapporto con le figlie, che si erano schierate con la mamma, e di fronte alle quali J. provava una grande vergogna e un’incapacità completa a manifestare il proprio affetto. Partendo da piccoli gesti di disponibilità materiale (commissioni, babysitting ai nipoti, riparazioni domestiche) riprese vita un rapporto che si era interrotto molto bruscamente.

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In questa fase ricomparve anche la musica, che fino a quel momento era stata investita, come il resto della vita di J., da una deriva nichilistica. Si chiedeva “Che senso ha suonare, organizzare spettacoli in questa situazione?”. Era bloccato da una sorta di vergogna di fronte alle figlie che non aveva mai provato prima. Si era convinto che suonare in giro o organizzare un nuovo spettacolo sarebbe stato giudicato severamente dalle figlie, come se l’unico modo in cui avrebbe potuto presentarsi davanti a loro fosse come il padre colpevole che aveva abbandonato la casa e per quello meritava di soffrire per il resto dei sui giorni come Caino.

Mi aveva incuriosito che tra le poche cose che aveva portato con sé durante il trasloco nella casa dei genitori c’era la chitarra, e sapevo che ogni tanto suonava le canzoni dei cantautori per farsi un po’ compagnia. Mi aveva raccontato che in passato aveva scritto qualche canzone sua e i tempi mi sembravano maturi per un invito un po’ insolito in un contesto psicoterapeutico: “La prossima volta, porti la chitarra!”.

  J. non fece una piega alla mia richiesta e la settimana successiva me lo trovai in sala d’aspetto con la sua bella chitarra classica appoggiata sulle gambe. Mi suonò una sua vecchia canzone che aveva come argomento la felicità, che non era affatto male e glielo dissi. Mi rendevo conto del possibile pericolo di fornire un palcoscenico a una persona così fragile, ma ero convinto che trovare il modo di stimolare la parte artistica e creativa di J. l’avrebbe aiutato a comunicare meglio anche sul piano emotivo.

Poche settimane dopo mi raccontò che per il compleanno della moglie di un suo carissimo amico aveva regalato alla coppia un concerto privato a casa loro, allestendo tutto l’impianto audio e la scenografia. Si stava lentamente sbloccando!

Musica - © -Misha - Fotolia.com
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Gli ultimi mesi di terapia furono caratterizzati da un graduale miglioramento dell’umore e una maggiore apertura alla dimensione sociale, seppure in contesti abbastanza “protetti”. J. cominciò infatti a frequentare un gruppo di meditazione buddista, dove conobbe alcuni giovani attori che avevano appena restaurato e preso un gestione un piccolo teatro parrocchiale. Venne invitato all’inaugurazione del teatro e rimase letteralmente folgorato dalla magia del luogo.

Incoraggiato dagli attori, J. cominciò a maturare l’idea di tornare a esibirsi con uno spettacolo di canzoni che lo rappresentassero, che raccontassero la sua storia. Lo incoraggiai anche io, soprattutto rispetto alle paure del giudizio delle figlie, che comunque non invitò allo spettacolo.

Preparò e consegnò personalmente gli inviti alle persone che avrebbe voluto presenti, prevalentemente colleghi, musicisti che avevano suonato con lui, ammiratori di suoi spettacoli precedenti e iniziò a prepararsi in modo molto serio per il suo one-man show. Scelse come titolo “L’ultima canzone”, dove quell’ultima sinceramente un po’ mi inquietava, ma trovammo anche il modo di scherzarci sopra e comunque mi rassicurò che non era uno spettacolo di addio.

Invitò anche me e io chiaramente andai, uscendo (solo leggermente…) dal setting, godendomi due ore di canzoni d’autore intervallate da parti lette di un racconto che J. aveva scritto negli ultimi mesi sulla storia di un uomo che trovava in soffitta una vecchia cassetta piena di ricordi e da lì ricostruiva la propria storia. Quella sera fu un successo e J. venne ricoperto di applausi e di affetto per avere avuto il coraggio di tornare sul palco a raccontare sé e la sua sofferenza attraverso le canzoni.

Quest’anno mi ha invitato a un altro spettacolo che ha preparato insieme a una poetessa e a tre musicisti, ma purtroppo non sono riuscito ad andarci.

Quando l’ho chiamato il giorno dopo per sentire com’era andata, mi ha raccontato che si è trovato sua figlia in sala. Una bella sorpresa.

 

 

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