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Motherhood: Il mito della Madre

Mettere a fuoco un pregiudizio di ordine prettamente culturale, quello che vede la madre come unica protagonista della cura dei propri figli.

Di Giulia Saltini Semerari

Pubblicato il 09 Feb. 2012

 

Motherhood: il mito della madre. - Immagine: © Dmitry Ersler - Fotolia.com Motherhood, o la mammitudine, come potrebbe essere tradotto, è un concetto sfaccettato di cui è assai difficile cogliere ogni ramificazione, che tocca la sfera della cultura, della biologia, della psicologia, le soggettivissime preferenze umane, la politica. Senza tentare di cogliere qui la mammitudine nella sua complessità, mi vorrei soffermare su alcuni dati interessanti riguardanti un suo aspetto specifico: quello dell’esclusività del rapporto madre-figlio e delle sue conseguenze sulla nostra vita quotidiana.

In un recente articolo sul New York Review of Books, MelvinKonner riporta il lavoro dell’antropologa e primatologa Sarah Blaffer Hrdy, soffermandosi in particolare sulla sua ultima opera, Mothers and Others: The EvolutionaryOrigins of Mutual Understanding. La tesi di Hrdy è in larga parte tesa a sostenere l’importanza di quello che viene chiamato cooperative breeding, cioè la crescita dei bambini all’interno di un contesto sociale più ampio di quello della famiglia nucleare (o della sola mamma), per la nostra evoluzione come specie. Qui vorrei concentrarmi su alcuni dati discussi nell’articolo che mi sembrano non solo i più interessanti, ma anche più ‘solidi’ da un punto di vista scientifico.

Amica? Nemica! - Immagine: 2011-2012 © Costanza Prinetti.
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Prima di tutto, mentre le madri sembrano avere un ruolo centrale nella crescita dei bambini in quasi tutte le culture, studi etnografici dimostrano che ad occuparsi della crescita dei bambini sono molto spesso altre persone all’interno della comunità, e che di norma il rapporto della madre con i propri figli non esiste in un vacuum, ma è strettamente integrato nel suo contesto sociale più ampio. Per la maggior parte della loro storia, ed in larga misura ancora in molte culture non occidentali, le donne si sono occupate di ogni sorta di attività – dalla raccolta di piante all’agricoltura, alla pesca, alla costruzione di case, alla produzione di tessuti ed altri manufatti eccetera – attività che non avrebbero mai potuto condurre se la cura dei figli non fosse stata almeno in parte condivisa, sia all’interno di famiglie allargate, che all’interno della comunità più in generale.

Non solo le famiglie nucleari che conosciamo non sono dunque la norma, ma il rapporto ‘esclusivo’ tra madre e bambino che è diventato uno degli assunti culturali della società occidentale è in larga misura un incidente storico, nient’affatto ‘naturale’. Dove nasca il mito della madre-chioccia la cui principale e (talvolta assoluta) funzione è quella di riprodursi e prendersi cura dei figli è un altro problema – un inglese risponderebbe citando l’età vittoriana, un italiano potrebbe pensare all’atteggiamento della chiesa, un americano al boom degli anni ’50 – ma è importante riconoscerlo per quello che è: un mito, appunto. Come scrive Konner:

‘the working mother has always been a central part of the human scene, and the classic stay-at-home mom of 1950s television may have been limited to Western cultures in that era’.

Un approccio più integrato alla mammitudine è inoltre supportato da una serie di dati emergenti. Uno studio condotto dalla Columbia University School of Social Work, pubblicato nel Luglio del 2010, ha seguito più di 1000 bambini in 10 aree geografiche differenti, fino all’età di sette anni, analizzando il loro contesto familiare e il loro sviluppo. La conclusione di questo studio è stata che nel complesso, gli svantaggi causati dall’allontanamento della madre per motivi lavorativi nel primo anno di vita del bambino sono bilanciati dai vantaggi che questo genera (un aumento dell’income della madre e una maggiore probabilità che i bambini ricevano cure migliori). Le madri lavoratrici non danneggiano, dunque, lo sviluppo dei propri figli.

Segnali incoraggianti, anche se oh, così timidi e lenti!, vengono anche dai padri, che vengono ancora considerati troppo poco e in modo troppo marginale quando si parla della cura dei figli. Eppure, sta diventato sempre più evidente che un cambiamento culturale è in atto anche dal lato della paternità, perlomeno a livello Europeo. La direttiva (n.9285 20/10/2010) approvata dal parlamento Europeo è senz’altro un passo importante. Diversi paesi del nord Europa sono, in questo senso, ancora più avanzati. Mentre in Inghilterra, uno studio del 2009 della Equality and Human Rights Commission ha rilevato come un desiderio di impiegare maggior tempo nella cura dei propri figli sia ormai diffuso nella maggior parte degli uomini (62%).

Perfezionismo e genitorialità. Immagine: © sonya etchison - Fotolia.com -
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Ci sono, naturalmente, una miriade di problemi aperti sia dal punto di vista lavorativo, che legislativo, che del welfare, che al momento ostacolano lo sviluppo lavorativo di molte donne quanto la serenità della loro gravidanza. Qui, mi premeva mettere a fuoco un pregiudizio di ordine prettamente culturale, quello che vede la madre come unica protagonista della cura dei propri figli e la cura dei figli come suo destino ineluttabile e assoluto. Pregiudizio appunto, che però è strettamente legato, se non la prima causa, degli ostacoli materiali, lavorativi e legislativi cui alludevo sopra. È importante, invece, trovare un equilibrio sensato tra le reali necessità biologiche legate alla mammitudine e le inclinazioni personali e le ambizioni lavorative di ogni mamma (ed ogni padre), senza farsi travolgere da teorie evoluzionistiche che più che scientifiche, sembrano ideologici dictat culturali volti a riaffermare l’ineluttabile destino delle donne occidentali. È rassicurante sapere che siamo invece libere di scegliere, e che questo delicato percorso culturale può, al contrario, essere portato avanti con serenità e senza temere che la nostra biologia ci si ritorca contro.

 

 

 

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