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Violenza sulle donne: dinamiche di vittimizzazione

In occasione della giornata mondiale della violenza sulle donne, parliamo delle dinamiche di vittimizzazione, sempre presenti nei casi di relazioni altamente disfunzionali nel corso delle quali hanno luogo i maltrattamenti.

Di Serena Mancioppi

Pubblicato il 25 Nov. 2011

Aggiornato il 08 Mar. 2012 08:31

In occasione della giornata mondiale della violenza sulle donne, parliamo delle dinamiche di vittimizzazione.

Violenza sulle donne e dinamiche di vittimizzazione - Immagine: © olly - Fotolia.com Il 19 novembre all’Università Cattolica di Milano si è tenuta la prima conferenza della Società Italiana per lo Studio dello Stress Traumatico (SISST); il tema principale della mattinata, decisamente troppo breve, è stato il disturbo post traumatico da stress, semplice e complesso, di cui si è parlato in una tavola sullo stato dell’arte del trattamento del PTSD. E’ seguita poi una lezione magistrale, come sempre eccellente, di Giovanni Liotti su attaccamenti traumatici e disturbi dissociativi e l’intervento di Chris Brewin su PTSD e memoria.

4 i workshop in programma nel pomeriggio, di uno in particolare, tenuto da Teresa Bruno e Carla Maria Xella, vorrei raccontare oggi, nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Il tema riguarda dinamiche di vittimizzazione, sempre presenti nei casi di relazioni altamente disfunzionali nel corso delle quali hanno luogo i maltrattamenti.

Innanzi tutto i dati nazionali, visionabili da chiunque sul sito dell’istat (Scarica il PDF): più del 30% delle donne italiane ha subito violenza fisica e/o sessuale, il campione riguarda le donne tra 16 e 70 anni, nella maggior parte dei casi le violenze sono domestiche, avvengono cioè all’interno di relazioni significative, e rimangono taciute; lo stupro, inoltre, è più probabile e frequente da parte di conoscenti che di sconosciuti.

Questi dati inquietanti, mettono ancora una volta in primo piano la relazione, quella significativa, dove l’amore si mescola alla paura, al dolore, all’impotenza, alla colpa. Lavorare sul trauma con le vittime di violenza, ci ricorda Teresa Bruno, psicoterapeuta e direttrice e responsabile del Centro Antiviolenza Artemisia di Firenze, significa lavorare sulla relazione.In questi casi, ancora più che in altri, il terapeuta diventa parte di una relazione significativa, alternativa a quella abusante, e fortemente riparatoria. Il terapeuta che osserva la violenza è sempre chiamato a prendere una posizione, dice Judith Herman “nell’osservare il trauma non è possibile rimanere neutrali. Si deve prendere posizione“.

Definirsi, schierarsi contro la violenza è il punto di partenza; spesso infatti ciò che nuoce è confuso e sfumato, legittimato, sia nella testa di chi subisce che nella testa di chi abusa, frequentemente a sua volta vittima di violenza nell’infanzia: il processo di costruzione della vittima, ci ricorda Françoise Sironi , è simile al processo di costruzione del persecutore. Condannare l’atto lesivo, anche a livello giuridico, e definire la necessità di proteggere la vittima è il primo passo necessario del terapeuta, ma anche di una società civile. Per questo motivo spesso i centri antiviolenza dispongono di residenze con indirizzo segreto in cui le donne maltrattate e i loro bambini possono rifugiarsi e cominciare un percorso protetto per la riappropriazione di sé. La violenza infatti trasforma. La donna che arriva ai servizi, dopo mesi, spesso anni, di abusi è spesso una persona completamente diversa da come era prima che entrasse nel ciclo di vittimizzazione. Nessuno nasce vittima, chiunque può diventarlo, con il “trattamento” giusto. Il trattamento è un vero e proprio processo di manipolazione interpersonale che avviene per gradi, tre gli ingredienti fondamentali: seduzione, manipolazione, condizionamento.

Inizialmente il rapporto è gratificante, positivo, la futura vittima è felice delle attenzioni che riceve, si sente amata, voluta, si fida. Pian piano il futuro abusante incomincia a dare regole molto rigide che hanno lo scopo di definire un universo di riferimento unico, nel quale l’aggressore chiede alla vittima di appartenere. E’ la fase in cui amici e parenti vengono progressivamente esclusi dalla propria vita, vengono definiti come intrusi scomodi in quell’universo privato, che pian piano si fa desolato e soffocante e diventa l’unico punto di riferimento accessibile. L’isolamento sociale apre la strada alla fase successiva, in cui la relazione si fa apertamente violenta. La violenza è una dinamica relazionale in cui qualcuno ha il controllo sull’altro grazie alla messa in atto di strategie. Vediamole:

  • Aggressioni: fisiche, ma anche minacce e disumanizzazioni, come obbligo di compiere pratiche sessuali degradanti e dolorose

  • Privazioni: di cure, di privacy, di movimento, di contatto con l’esterno

  • Controllo e coercizione: ordine e controllo ossessivo da parte del persecutore nei confronti della vittima

  • Punizioni

  • Perversione logica: ridere del dolore delle vittime, proporre scelte tra opzioni impraticabili, dare messaggi paradossali, obbligare la vittima ad azioni in contrasto con i suoi valori, alternare in modo casuale gentilezza e violenza

  • Influenza: trasformare il mondo interno della vittima attraverso l’effrazione psichica e l’influenza del persecutore. In questo modo tutto ciò che la vittima sente e pensa è legato all’altro, a come l’altro lo percepisce.

Nel caso in cui siano presenti i figli, punizioni e controllo esercitati sul genitore maltrattato da parte del genitore maltrattante hanno l’effetto di privarlo ai loro occhi di rispetto e autorevolezza. La relazione tra madre e figli passa da un piano verticale, gerarchico, a un piano orizzontale, di pericolosa uguaglianza in cui il divario generazionale cessa di esistere e si è tutti vittime senza protezione.

Le strategie di vittimizzazione hanno l’effetto di mantenere il persecutore l’oggetto privilegiato di attenzione della vittima: l’universo mentale della vittima diventa quello del persecutore, la vittima è espropriata del proprio sé, della propria capacità di giudizio rispetto agli eventi nella quale è coinvolta: può arrivare a chiedersi se 50 euro sono una cifra di risarcimento adeguata per avere rotto un bicchiere dentro casa…, senza rendersi conto dell’assurdità del pensiero che sta facendo.

L’attenzione delle vittime è sempre sull’altro, il persecutore, a cosa pensa, cosa vuole, nel tentativo disperato di aderire alla sua griglia mentale. I fenomeni dell’impotenza appresa, del pensiero binario e l’espropriazione del proprio universo mentale spiegano la passività estrema di queste persone, che spesso suscitano in chi tenta di aiutarle reazioni di rabbia e frustrazione, perché non reagiscono, non agiscono, fanno fatica ad assumere una posizione attiva e protettiva nei confronti di loro stesse e dei loro figli. Perché questi sentimenti non lascino spazio alla colpevolizzazione della vittima (“se l’è voluta, non vuole tirarsene fuori, istiga l’aggressore”) perpetuando il ciclo di vittimizzazione, è necessario ricordare sempre che si tratta persone che hanno subito un processo di trasformazione profondo e sono state isolate a lungo, private di punti di riferimento sociale e affettivo.

Vediamo cosa fanno i servizi preposti alla presa in carico di queste difficili situazioni?

Il primo passo è valutare la sicurezza della vittima, capire se è in pericolo e se ci sono minori in pericolo. In questa fase non ci si occupa assolutamente della psicopatologia, questo verrà poi. L’azione chiara di protezione del terapeuta legittima e permette lo svelamento della violenza da parte della vittima.

Quindi in primo luogo è necessaria la valutazione del rischio (con strumenti oggettivi appropriati, in grado di bypassare la percezione soggettiva delle vittime); successivamente si agisce sulla riduzione del rischio, facendo leva, quando possibile, sulle possibilità di autoprotezione e sulle risorse della persona. Per capire se questo è attuabile è necessaria una precoce valutazione degli aspetti dissociativi, che comprometterebbero chiaramente le azioni autoprotettive, rendendo quindi necessario l’allontanamento immediato da casa. Nei casi in cui questo non avviene si può iniziare a lavorare con la vittima perché incominci a ritagliare un piccolo spazio fisico e mentale in cui stare senza il persecutore, in cui possa incominciare a riappropriarsi di sè, ad avere dei segreti, piccoli momenti in cui ciò che domina dentro di lei non è la mente dell’altro.

Il percorso procede poi con lo svelamento del gioco relazionale dell’aggressore: la vittima deve poterlo comprendere, pian piano acquisire di un punto di vista esterno alla dinamica relazionale che la domina e, grazie a questa presa di coscienza incominciare il distanziamento emotivo dal persecutore, questo apre alla possibilità di ricominciare a fare scelte autonome.

Nella costruzione dell’alleanza con il terapeuta, ancor più del solito, gioca un ruolo fondamentale il sentire da parte della vittima che questo può sopportare il carico di ciò che verrà raccontato; in questi casi è utile esplicitare che esiste una rete di relazioni professionali in grado di sostenere il peso della situazione: il paziente potrà appoggiarsi al terapeuta sapendo che questo a sua volta può contare su un sostegno per sé. Quest’immagine di persone che si sostengono a vicenda ripropone nella vita del paziente l’idea e la possibilità di una rete sociale affidabile che va a contrapporsi al desolante scenario relazionale a cui ormai è abituato.

Una volta costruita l’alleanza il lavoro psicoterapeutico che segue procede per fasi e obiettivi:

  • Ricostruzione della storia personale

  • Affrontare le memorie traumatiche

  • Elaborazione del lutto

  • Ricostruzione di legami affettivi

  • Imparare a combattere

  • Riconciliarsi con sé stessi

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Serena Mancioppi
Serena Mancioppi

Psicologa Psicoterapeuta Sistemico Relazionale e Cognitivo-Evoluzionista

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