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Attacchi di Panico: Il Protocollo di Andrews.

Di Ursula Catenazzi, Sara Della Morte, Giuseppina Di Carlo

Pubblicato il 05 Nov. 2011

Aggiornato il 03 Lug. 2013 12:16

Intervista alla Dottoressa Leveni, esperta di Disturbo d’Ansia.

Panic Attack - © Scanrail - Fotolia.comCirca il 28% della popolazione almeno una volta nella vita sperimenta un occasionale ed inaspettato attacco di panico, tuttavia solo nel 3-5-% della popolazione insorge il terrore di poterlo sperimentare nuovamente. Terrore che a sua volta innesca il circolo vizioso dell’ansia fino a dare origine a un Disturbo da Attacchi di Panico. Questo disturbo è caratterizzato dalla presenza di attacchi di panico che, sebbene durino pochi minuti, provocano un disagio molto intenso e possono lasciare l’individuo prostrato per molte ore. Questo disturbo, se non curato, non solo tende a cronicizzarsi rapidamente, ma riduce anche l’autonomia personale, l’efficienza lavorativa e scolastica, la qualità della vita compromettendo le relazioni familiari e sociali di chi ne è affetto.

Nel tempo sono stati studiati differenti trattamenti per questo disturbo e, grazie a questa linea di ricerca, quelli attualmente disponibili  sono altamente validi, tanto che oltre l’80% dei soggetti può imparare a tenere sotto controllo questo problema. La maggior parte dei trattamenti psicoterapici proposti si basa sulla Terapia Cognitivo Comportamentale (Cognitive Behaviour Therapy- CBT) che si è dimostrata essere altamente efficace e per questo motivo viene raccomandata dalle linee guida delle maggiori organizzazioni scientifiche mondiali. Gli interventi CBT si basano su protocolli strutturati che devono essere seguiti durante la terapia. Uno dei protocolli più utilizzati e più studiati per il trattamento del Disturbo di Attacchi di Panico è quello messo a punto dal prof. Andrews a Sidney. Questo protocollo si struttura secondo 7 punti (psicoeducazione, monitoraggio del panico, tecniche di gestione dell’ansia, ristrutturazione cognitiva, esposizione graduale alle situazioni, esposizione graduale alle sensazioni fisiche, prevenzione delle ricadute) ed è stato pensato principalmente per il trattamento di gruppo. Tuttavia, come del resto tutti i protocolli, anche questo presenta vantaggi e svantaggi. Ne parliamo con la Dott.ssa Leveni responsabile del Centro per il Trattamento dei Disturbi d’Ansia del DSM di Treviglio Caravaggio (BG) che ha personalmente studiato, applicato ed approfondito questo protocollo.

 

Riguardo al protocollo sviluppato da Andrews, quali sono secondo Lei i Pro e i Contro del trattamento?

 

Un primo aspetto positivo è che si riduce considerevolmente la durata in termini di tempo del trattamento e la fatica in generale. Questo perché c’è una guida, un percorso da seguire, con l’aiuto di un professionista ed inoltre i pazienti sono anche agevolati dal manuale che possono consultare e che li aiuta a fissare nella memoria quanto è stato affrontato durante la seduta. Questa è una cosa molto apprezzata. Un altro aspetto positivo è che anche come terapeuti si è più tranquilli rispetto all’errore. Seguendo il manuale si può tranquillamente applicare la terapia “basic”, che è efficace di per sé. Poi si possono aggiungere altre parti a seconda delle competenze che un terapeuta possiede così il trattamento può apportare anche altri benefici, essere ancora più efficace.

 

Quali sono gli svantaggi di un protocollo simile?

 

Gli svantaggi di questi manuali è che bisogna imparare a personalizzarli, perché c’è il rischio di leggerli in modo un po’ meccanico … del tipo “questa è l’indicazione se una cosa la fai bene, sennò non so che dirti”. Semplificare un po’ troppo, diventare un po’ troppo “comportamentisti”. In altre parole la difficoltà è esplicitare lo stesso concetto a seconda del paziente che si ha davanti. Quando seguo il manuale anche se faccio la stessa cosa, è come se lo riscrivessi per dirla in modo nuovo e significativamente utile per quella persona. È questa un po’ la sfida.”

 

Il protocollo è pensato per una terapia di gruppo. Nella sua esperienza Lei ha avuto l’opportunità di lavorare sia con pazienti in gruppo che con il paziente singolo. Dal suo punto di vista quale dei due interventi è migliore? Anche rispetto al bisogno di personalizzare il trattamento.

 

Alcuni aspetti sovraordinati non possono essere modificati in una condizione di gruppo. Per esempio il rapporto genitore-figlio, in base al quale quella persona ha imparato quel costrutto o quella credenza che non può essere modificata in un contesto di gruppo perché richiede di focalizzarsi su altri concetti di base. Oppure negli Attacchi di Panico la paura per il giudizio altrui, come nella fobia sociale. E’ anche vero che il trattamento viene preparato prima e quindi il clinico, con un minimo di esperienza, riesce a capire come il disturbo si declina in quella persona e, ad esempio, quando interviene nella discussione di gruppo sapendo già che vive quell’aspetto di cui si sta parlando, il clinico cerca di riportarlo al suo caso. Ovviamente non andando troppo in profondità o spaziando troppo, bisogna rimanere aderenti, ma qualcosa si può fare. E’ capitato che alcuni pazienti dopo aver partecipato al gruppo e aver risolto il “corto circuito” per cui erano arrivati, chiedessero dei trattamenti individuali per parlare di problemi che agivano come fattori predisponenti. Il trattamento individuale è un po’ un minestrone c’è un po’ di tutto, l’importante è seguire il canovaccio.”

 

 

References:

 

Andrews G., Creamer M., Crino R., Hunt C., Lampe L., Page A. (2003) Trattamento dei disturbi d’ansia. Guide per il clinico e manuali per chi soffre del disturbo. Edizione italiana a cura di Guidi A., Leveni D., Lussetti M., Morosini L., Piacentini D., Rossi G.

 

www.cetrada.it

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