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Piangere ci fa sentire meglio? Non proprio

Di Maria Francesca Sarnelli

Pubblicato il 06 Ott. 2011

Pianto_© Alena Ozerova - Fotolia.comChi di noi almeno una volta nella vita non si è sentito dire in un momento di tristezza che dopo avere pianto sarebbe stato meglio? La maggior parte degli stessi psicoterapeuti, a prescindere dal proprio orientamento clinico, considera positivo tale comportamento e addirittura incita il proprio paziente a manifestarlo apertamente in seduta.

La recente ricerca scientifica tuttavia sembra ridimensionare il ruolo terapeutico attribuito al pianto dalla cultura occidentale. Secondo alcuni studi infatti il pianto aumenterebbe il livello di arousal e lo stress della persona e avrebbe quindi degli effetti addirittura deleteri sul tono dell’umore (Hendriks e coll., 2007). Questi autori hanno ipotizzato che il pianto abbia un effetto dapprima attivante (aumento della frequenza del battito cardiaco) e solo in seguito calmante (riduzione della frequenza respiratoria).

Un’altra variabile rilevante è il contesto ambientale in cui avviene il pianto. In alcune circostanze può suscitare in chi vi assiste una reazione di accudimento nei confronti della persona che sta piangendo e determinare un miglioramento sul tono dell’umore, in altri casi invece il pianto può esporre la persona alle critiche altrui, aumentandone il disagio psicologico percepito. Alcuni autori (Rottenberg e coll., 2002, Gross e coll., 1994) hanno evidenziato negli studi da loro effettuati che i soggetti che erano stati esposti ad uno stimolo e avevano pianto riferivano poi di essersi sentiti peggio (aumento del senso di tristezza e di disagio) rispetto ai soggetti che posti di fronte allo stesso stimolo non avevano pianto.

La ricerca recente ha ipotizzato che il pianto possa determinare in alcune categorie di pazienti (in particolare gli alessitimici, i depressi e gli ansiosi) un peggioramento del tono dell’umore, anche se questa ipotesi non è ancora stata testata sperimentalmente.

Alla luce di tutto ciò la domanda corretta da porgersi non è se il pianto sia benefico o meno, ma a quali condizioni esso lo sia o lo possa diventare.

Alcuni studiosi hanno cercato di individuare le singole fasi temporali che caratterizzano il pianto (fase iniziale, picco emotivo/comportamentale e fase finale). Nelson (2005) in particolare si è concentrato sull’individuazione e la classificazione delle varie tipologie di pianto (pianto triste, pianto di protesta, pianto distaccato), ciascuna caratterizzata dai propri scopi, comportamenti manifesti ed effetti sul tono dell’umore.

Per ora le ipotesi illustrate sono teoriche, ma potrebbero essere testate a livello sperimentale ed essere successivamente utilizzate per guidare la futura pratica clinica. Per ora la certezza che abbiamo al riguardo è di saper quanto è complesso in sé il fenomeno del pianto e che al suo interno cela ancora molti segreti da svelare.

BIBLIOGRAFIA:

  • Gross J.J., Frederickson B.F., Levenson R.W. (1994). The psychophysiology of crying.Psychophysiology 31, 460-468.
  • Hendriks, M.C.; Rottenberg, J., Vingerhoets, J.J. (2007) Can the distress-signal and arousal-reduction views of crying be reconciled? Evidence from the cardiovascular system.Emotion; 7: 458–46.
  • Nelson J.K. (2005). Seeing trough tear: Crying and attachment. New York: Brunner- Routledge.
  • Rottenberg, J.; Gross J.J., Wilhelm F.H., Najmi S., Gotlib I.H. (2002). Crying threshold and intensity in major depressive disorder. Journal of Abnormal Psychology, 111, 302-312.
  • Rottenberg, J.; Bylsma, L. M., Vingerhoets, J.J. (2005) Is Crying beneficial? Current research in Psychological Science; 17(6): 400-404.
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