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La strage di Oslo e la percezione sociale del cristianesimo

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 25 Lug. 2011

Aggiornato il 15 Nov. 2012 11:13


La strage di Oslo e le percezione sociale del cristianesimo.

La strage di Oslo e dell’isola di Utøya genera troppe domande che rischiano di sposarsi a risposte troppo semplici. La personalità anti-sociale, le idee estremistiche, il ruolo dei fondamentalismi e delle religioni monoteistiche e non, i totalitarismi secolari. E poi i videogiochi, l’uso perverso dei social network, l’ambiente dei gruppi estremisti. In questo calderone lo psicologo teme di non poter dire nulla di particolarmente originale e nemmeno nulla di rassicurante.

Mi limito a riflettere su un aspetto della tragedia: Andres Breivik, l’autore della strage, ha dichiarato di essere un cristiano. Lasciamo da parte il problema di cosa sia un cristiano e ancor più di cosa sia un vero cristiano e se e quanto Breivik lo sia. Atteniamoci al nucleo emotivo della faccenda, perché in esso riposano gli aspetti psicologici. Anche per il terrorismo islamico si è spesso disquisito su cosa sia il vero Islam, con puntualizzazioni probabilmente buone e giuste. Ma in termini di “minaccia percepita” ciò che oggi potrebbe contare è che Breivik ha rivendicato la strage (anche) in nome del suo cristianesimo.

Quando Osama bin Laden realizzò l’attentato alle Twin Towers diede inizio a un equivoco confusivo, anche se poi quella confusione aveva le sue ragioni. Osama attaccò l’Occidente, definendolo cristiano e “crociato”. È vero che talvolta se la prendeva anche con la secolarizzazione della vita occidentale, ma la sua terminologia utilizzava termini religiosi che –ancora una volta- si imprimevano nella mente anche quando non appropriati: cristiani, crociati, e così via.

Personalmente, mi è capitato di osservare qualcosa di simile perfino nel pur secolarizzato stato d’Israele: alcuni (non tutti) colleghi ebrei si rivolgevano a noi dicendo “voi cristiani”. A noi italiani in visita ci parve inutile stare a spiegare che il termine era abbastanza fuori luogo: i colleghi italiani che mi accompagnavano erano tutti atei e il mio personale cristianesimo mi definiva in misura meno incisiva e pubblica rispetto alla loro ebraicità.

Dopo l’11 settembre per la laicità occidentale è iniziato un periodo di disorientamento. Come conservare la propria laica equidistanza rispetto a tutte le religioni, e al tempo stesso prendere atto che, almeno in quei giorni (giorni che iniziano ad apparire stranamente lontani), la minaccia maggiore sembrava provenire dall’Islam?

A questo equivoco se ne aggiunse un altro. Molti occidentali laici, ma di formazione e mentalità più storicistica e romantica (e per questo differente rispetto a chi privilegiava l’illuminismo progressista), sentirono di doversi muovere per difendere non solo i valori dell’individualismo secolarizzato, ma anche la loro radice storica che era anche cristiana.

Non basta. Covava inoltre in alcuni uno strano desiderio di farla pagare a certe frange eccessivamente terzomondiste del fronte illuminista, frange che non rispettavano poi troppo l’attesa equidistanza illuministica da tutte le religioni e lo stesso equidisgusto per tutte le Tradizioni. Alcuni tradivano invece simpatie verso le Tradizioni che storicamente occidentali non erano. La solita innocua paccottiglia di fascinazione per le spiritualità orientali nelle sue varie reincarnazioni. Oppure la teoricamente meno innocua abitudine di indossare la kefiah (ma anche in questo caso spesso tutto si risolveva in un terzomondismo bonario e privo di conseguenze). Una delle ultime manifestazioni è stato un certo recente entusiasmo turistico per l’antica città di Istanbul.

Come guerra di civiltà, era abbastanza innocua e soft. Soft non è un mio termine, ma di un autorevole blogger dell’Unità: “non c’era più bisogno di spiegare che mondo possibile si desiderava; bastava essere contro il mondo dei neocon: la guerra infinita, uno scenario molto più concreto del Wto o degli immaginosi imperi toninegriani. Da questo punto di vista, provocatori ‘soft’ come Ferrara o la Fallaci ci resero un servizio enorme”.

Di qui una polemica tra laici illuministi e mezzo-laici filo-cristiani più o meno devoti. Ad ascoltare queste discussioni, prevaleva la sensazione che l’Occidente si fosse tramutato in un consesso di giovani tromboni, un’assemblea di studenti fuori corso un po’ troppo saputi, tutti presi a discutere sull’esistenza o meno delle radici cristiane. Di lì a poco, molti finirono per essere infastiditi soprattutto da se stessi e dalle proprie ossessioni.

Il tutto oggi suona più chiassoso che dannoso, e al fondo innocuo. È vero che nel frattempo gli americani scatenarono una guerra in Iraq, ma col tempo la minaccia terroristica divenne una periodica tragedia che spuntava tra i titoli dei notiziari della sera: Madrid, Londra, e qualche altra esplosiva notizia. Tutto sconfinò nella banalità del male.

Era un modo per esorcizzare in qualche modo i difetti della “modernità liquida”, come la ha definita Zygmunt Bauman (2000). La società liquida conferisce all’uomo e alla donna la libertà di costruire liberamente il proprio percorso di vita, limitando al massimo i ruoli predefiniti, le attese, le pressioni e le costrizioni sociali. Tuttavia, l’atmosfera rarefatta della modernità non è per tutti, o forse è per tutti e per nessuno. La libertà va a cozzare contro un altro dei bisogni fondamentali dell’uomo, che è il bisogno di prevedibilità. E nel campo sociale e culturale la prevedibilità assume la veste politicamente non correttissima del senso di appartenenza.

Negli altri cerchiamo non solo lo stimolo e la novità, ma anche le somiglianze, le conferme, le similitudini di gusto, di sensibilità, di storia personale. Negli altri cerchiamo perfino le stesse idiosincrasie e le stesse antipatie. Insomma un certo grado di continuità affettiva, di fiducia reciproca, un’assicurazione che i rapporti siano ragionevolmente prevedibili e quindi amichevoli e fruttuosi (Baumeister e Leary, 1995). Brewer (1991) ha riscontrato il benessere personale e il senso di stabilità del proprio sé dipendono non solo dalla personalità individuale, ma anche dalla possibilità di aderire a norme culturali condivise. Senza questa possibilità, il disagio e l’angoscia fanno le loro sgradite apparizioni. Per questo appare ingenuo il discorso di chi vorrebbe ridurre il pensiero conservatore a pavido timore del cambiamento e della novità.

Nel processo di secolarizzazione che ha investito le società occidentali, la vita sociale è andata incontro a un doppio processo sia di diminuzione che di intensificazione del senso di appartenenza. I due processi sono logicamente in contraddizione reciproca, ma le contraddizioni logiche possono benissimo convivere, sia pure conflittualmente, nell’arena emotiva delle persone e delle comunità sociali. E così in Occidente, accanto a un crescente stile di vita individualistico e secolarizzato, cresce anche il grado di coinvolgimento in forme di associazione neo-identitarie (Banks e Gingrich, 2006).

Da tutto questo è nato un lungo equivoco, che la strage norvegese dirime con il sangue. L’illusione che il cristianesimo potesse essere un nucleo identitario accettabile anche per la laicità illuministica, un nucleo sufficientemente elastico e adattabile da poter essere accettato anche dalla secolarizzazione moderna. Vivere “veluti si Deus daretur”, vivere come se Dio ci fosse, senza crederne l’esistenza. Espressione forte e acrobatica per un credente monoteista, ma comunque inaccettabile per un laico non credente.

Qualcuno ha sognato di poter concepire una difficile armonia tra l’individuo cristiano che ha sciolto i legami con le religioni etniche pagane e il (quasi) conseguente individualismo laico. Purtroppo non basta segnalare le affinità storiche tra l’individuo cristiano che rompe con i legami di sangue e di clan per vivere in una intimità solitaria (e quindi già così moderna) la sua fede e l’individuo moderno che organizza personalmente e ancor più solitariamente del cristiano la sua vita secondo i suoi scopi. La figliolanza storica non implica automaticamente unità di intenti. Ci sono delle inevitabili conflittualità psicologiche e culturali tra mentalità cristiana e modernità.

Conflittualità che sono al fondo della natura della libertà occidentale. Un assassino come Breivik le ha portate all’estremo, segnando una sorta di punto di svolta che però può rendere tutti più consapevoli di se stessi. Ma non è detto che rimarcare le differenze sia una diminuzione. La laicità occidentale non si riduce a mera conseguenza storica del cristianesimo e a sua volta il cristianesimo è qualcosa di più grande e grave del limitarsi ad essere la religione etnica dell’Occidente.

 

Banks, M., Gingrich, A. Neo-nationalism in Europe and beyond. In M. Banks, A. Gingrich (a cura di), «Neo-nationalism inEurope and beyond: perspectives from social anthropology». Berghahn,Oxford, 2006, pp. 136-161.

Bauman, Z. (2000). Liquid Modernity. Polity Press, Cambridge. trad. it.: ”Modernità liquida”, Ed. Laterza, Roma-Bari 2002.

Baumeister, R. F., Leary, M. R. The need to belong: Desire for interpersonal attachments as a fundamental human motivation. In «Psychological Bulletin», 117, 1995, pp. 497- 529.

Brewer, M. B. The social self: On being the same and different at the same time. In «Personality and Social Psychology Bulletin», 17, 1991, pp. 475-482.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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